Archivio film Cinema News — 04 Novembre 2015

Titolo originale : El club
Regia: Pablo Larraín
Sceneggiatura: Daniel Villalobos, Guillermo Calderón, Pablo Larraín
Cast: Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking, Jaime Vadell, Marcelo Alonso, Francisco Reyes
Fotografia: Sergio Armstrong
Produzione: Juan De Dios Larraín
Nazionalità: Cile
Anno: 2015
Durata: 98 minuti

A La Boca, un paese sulla costa del Cile, vivono in una casa isolata e vicino al mare quattro uomini e una donna. I primi sono dei sacerdoti che hanno commesso dei crimini che la Chiesa intende far estirpare in quell’abitazione per nasconderli alla legge statale, mentre la seconda è una suora incaricata di sorvegliare il gruppo. Quando un giorno si aggiunge al “club” un nuovo prete, accusato di pedofilia, succede un fatto irreparabile: Sandokan, un senza tetto del luogo, riconosce nel nuovo arrivato la persona che anni fa ha abusato di lui e lo dichiara apertamente, fino a che il sacerdote si toglie la vita. Di conseguenza, arriverà un prete gesuita deciso a indagare sulla casa di redenzione.

Dopo la trilogia ideale sugli anni di Pinochet (composta da Tony Manero, Post Mortem e No – I giorni dell’arcobaleno), Pablo Larraín con El club abbandona (quasi) completamente il tema della dittatura per affrontare le contraddizioni e le colpe della Chiesa Cattolica. E per realizzare ciò, il cineasta non mette più al centro un singolo individuo come nei tre film precedenti, ma si apre alla coralità concentrandosi su ben sette personaggi, alcuni più altri meno rilevanti nell’economia narrativa, ma tutti fondamentali per rappresentare al meglio le diverse posizioni e le varie sfumature interne alla Chiesa e ai suoi fedeli.

Ma insieme a tali differenze, la pellicola ha anche dei punti in comune con le altre opere di Larraín, a cominciare dalla forte presenza di problematiche come l’impunità e l’oblio. Infatti, qui l’autore non rappresenta tanto e solo dei preti che hanno commesso i crimini più svariati, ma riflette soprattutto sulla volontà dell’istituzione ecclesiastica di non far punire i suoi membri dallo Stato e di nascondere all’opinione pubblica i fatti più scomodi.
Se da un lato i sacerdoti di El club evitano vere condanne come accadeva al Raúl di Tony Manero e ai militari di Post Mortem, dall’altro vi sono istituzioni e individui che vogliono insabbiare verità e fatti inconfessabili giuridicamente e psicologicamente, emergendoli così nell’oblio, proprio come i personaggi della trilogia emergevano nell’oblio la storia, la cultura e, a volte, la contemporaneità del loro Paese. Al tempo stesso, però, come negli altri lavori del regista cileno, ciò che si vuole negare e scordare in qualche modo ritorna e influenza più o meno direttamente i protagonisti.

Questioni che emergono non solo tramite la narrazione, ma anche attraverso le scelte linguistiche ed estetiche adottate. In El club ciò che colpisce fin dalla prima visione è la (bellissima) fotografia di Sergio Armstrong, che realizza delle immagini dalla patina nebulosa, quasi offuscata, che raffigurano bene il senso di mistero e, soprattutto, di oblio e invisibilità.
E, insieme alla fotografia, ciò che risulta evidente fin da subito è la regia rigorosa di Larraín, che qui opta soprattutto per piani fissi dalla composizione evidentemente pensata e studiata; proprio come in Post Mortem, l’opera della trilogia in cui l’idea di mistero è forse più evidente e con cui El club sembra avere, almeno a livello registico, più punti in comune.

Ma rispetto al film sul colpo di Stato, l’ultima fatica dell’autore cileno è meno opprimente e soffocante, in quanto più ironica e beffarda: El club, infatti, è allo stesso tempo amaro e sarcastico, e la sua forza polemica deriva in buona parte dal suo umorismo grottesco e tagliente.
Ciò viene inoltre accompagnato da un racconto apparentemente semplice (se si esclude il macchiavellico finale), che nel suo svolgimento lento risulta comunque agile e scorrevole, dimostrando le sempre più crescenti e palesi qualità narrative del regista latinoamericano, già notevolmente presenti in No – I giorni dell’arcobaleno.

Così, Larraín con El club firma un tassello fondamentale della sua filmografia, non solo perché la sua nuova opera è riuscita e incisiva in tutti i suoi aspetti, ma soprattutto in quanto l’autore intraprende qui strade e storie nuove restando al tempo stesso fedele agli elementi che contraddistinguono maggiormente il suo cinema.

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