Archivio film Cinema News — 03 Gennaio 2016

Titolo originale: Saul fia
Regia: László Nemes
Soggetto e sceneggiatura: László Nemes, Clara Royer
Montaggio: Matthieu Taponier
Fotografia: Mátyás Erdely
Produzione: Laokoon Filmgroup con il supporto di Hungarian National Film Fund, Claims Conference
Cast: Géza Röhrig, Levente Molnár, Sándor Zsotér, Jerzy Walczak
Nazionalità: Ungheria
Anno: 2015
Durata: 107 min.

Da alcuni anni a questa parte, il 27 gennaio – Giorno della memoria per le vittime della Shoah – è diventato un appuntamento fisso per l’uscita di film riguardanti il nazismo, i campi di concentramento, le persecuzioni subite dagli ebrei.
Per il 2016, il distributore Teodora Film porterà in Italia “Il figlio di Saul”, film vincitore del Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes. Acclamato come un capolavoro, il lungometraggio d’esordio del regista ungherese Nemes, che è anche cosceneggiatore, è decisamente particolare. Dimenticate tutti i film commoventi e di buoni sentimenti nella tragedia che avete visto finora. Dimenticate gli atti d’eroismo delle vittime contro gli aguzzini. E dimenticate quelle briciole d’umanità che lasciano uno spiraglio per la speranza anche nelle situazioni più drammatiche.
László Nemes ha realizzato un film che è crudo e realistico come un documentario. Lo spettatore viene catapultato fin dal primo istante nel mondo crudele del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, la più terrificante industria della morte mai concepita dall’umanità. Lo sguardo che si assume è quello di un uomo impegnato a svolgere una serie di incombenze, in tutta fretta. È un membro di un Sonderkommando, uno dei gruppi di prigionieri scelti per accompagnare alla morte le vittime, rassicurandole con l’inganno affinché raggiungano docilmente e senza perdere tempo la camera a gas. Qualche minuto, e lo Zyklon B tramuta l’inerme gruppo di uomini, donne e bambini nudi e vivi in una massa di cadaveri da spostare, ripulendo i pavimenti della camera a gas e portando i corpi alla loro destinazione finale, il crematorio.
Saul Ausländer (il bravissimo Géza Röhrig), è uno di loro: sguardo cupo e perso, abiti sporchi e movimenti da automa, incarna perfettamente l’abbruttimento al quale gli uomini del Sonderkommando erano sottoposti. Un autentico calvario fatto di turni massacranti, fatica fisica, anestesia dei propri sentimenti e delle emozioni per sopravvivere in mezzo alla più totale disumanità. Nella consapevolezza di avere una “data di scadenza”: i nazisti ricambiavano queste squadre ogni tre-quattro mesi. Chi ne faceva parte sapeva di dover subire l’identica sorte delle altre vittime, nella stessa catena di montaggio della morte che aveva contribuito a far funzionare. Secondo la logica degli aguzzini, nessuno doveva sopravvivere: gli uomini dei Sonderkommando erano infatti i testimoni più pericolosi.
In una delle giornate di lavoro della macchina della morte, Ausländer si imbatte nel corpo di un ragazzino, sopravvissuto miracolosamente al gas ma ucciso subito dopo dai nazisti. Saul crede di riconoscere suo figlio e la sua dignità si risveglia d’improvviso dal torpore. Deve assolutamente trovare un rabbino, far recitare il Kaddish, la preghiera funebre, e dare una degna sepoltura al suo bambino.
Da qui, la storia prende una piega incredibile. Mentre i compagni del Sonderkommando stanno organizzando una rivolta per riuscire a salvarsi – un complotto di cui lo stesso Saul faceva parte – cambiano le priorità del protagonista. La sua vita finisce in secondo piano, di fronte all’esigenza di un funerale per il figlio.
È assolutamente paradossale l’incaponirsi di Ausländer sulle esequie di una persona quando per le sue mani ogni giorno passano migliaia di cadaveri, ma ha un suo senso. In una situazione così estrema, occorre aggrapparsi a qualcosa che permetta di preservare la propria umanità e sentirsi pronto ad affrontare il proprio destino a testa alta.
È questa la storia, di fantasia ma assolutamente realistica, che Nemes vuole raccontare. E lo fa con una maestria notevole. La cinepresa è perennemente puntata sul protagonista e sul suo sguardo che si focalizza sui dettagli che scorge nei suoi movimenti: lembi di corpi nudi che sposta, il pavimento sporco della camera a gas che pulisce, i vestiti che fruga per trovare denaro e preziosi da consegnare ai nazisti. La perenne corsa contro il tempo per far funzionare a ritmo continuo la fabbrica della morte è resa dai movimenti veloci di Saul. Non c’è alcuna indulgenza, non c’è la velleità di abbellire la cruda realtà: l’ambiente è cupo e asettico, le luci contribuiscono all’atmosfera di orrore in cui un ogni essere umano smette di essere tale per diventare uno degli Stücke, letteralmente “pezzi”, cadaveri eliminati. Un macabro rituale finalizzato alla disumanizzazione delle vittime, che vengono reificate. Nessun film finora era riuscito a trasmettere questo orrore con così tanta efficacia.
«Ho trovato in libreria un volume intitolato “La voce dei sommersi”, che raccoglie gli scritti di alcuni membri del Sondekommando di Auschwitz», ha spiegato il regista riguardo alla genesi di “Il figlio di Saul”. «Prima della loro rivolta del 1944, queste pagine vennero nascoste sotto terra e ritrovate solo molti anni dopo la fine della guerra. Si tratta di una testimonianza straordinaria». Pochi uomini dei Sonderkommando sopravvissero per poter parlare, e Nemes con coerenza verso la Storia non ha previsto un happy end per la vicenda che racconta. Nella realtà, solo una dozzina di questi manovali della morte si salvarono miracolosamente. Uno di essi, Shlomo Venezia, ha raccontato la sua vicenda in un libro e fino alla sua scomparsa, nel 2012, non ha smesso di testimoniare l’orrore che è stato costretto a vivere.

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