Cinema News — 28 Novembre 2012

La storia recente dell’Iran è per molti versi legata a tanto operato internazionale statunitense dell’ultimo sessantennio. Come per Cuba e l’Iraq, gli USA anche in terra persiana espressero il loro veto circa la direzione democratica che il Paese doveva intraprendere. Erano gli anni ’70 e l’Iran rappresentava nello scacchiere internazionale una pedina importante fra il Medio Oriente e l’URSS: questa sua collocazione geopolitica aveva presto attirato le attenzioni statunitensi che avevano promosso la figura autoritaria – e poi dittatoriale – dello Scià Mohammad Reza Pahlavi. Il suo quarantennale mandato sul finire degli anni ’70 si inasprì anche in virtù di una Guerra Fredda che negli ultimi vent’anni aveva vissuto le sue fasi più drammatiche. Nel 1979 dopo anni di fame, repressione e violenze lo Scià venne deposto durante la Rivoluzione Iraniana in favore di uno stato repubblicano. Al potere salì lo Ayatollah Khomeyni che da lì per un decennio avrebbe guidato il Paese secondo i dettami della Shari’a.

Come tutte le rivoluzioni anche quella iraniana visse dei momenti di grande criticità. Uno fra questi è riconducibile alla crisi diplomatica che interessò il Paese sovrano, USA e Canada inerente gli ostaggi dell’ambasciata americana a Tehran che furono tenuti prigionieri dalle truppe insorte. Nel novembre del 1979 cinquanta fra diplomatici e funzionari vennero presi in consegna dalle milizie. Alcuni di loro – sei, per l’esattezza – riuscirono a ripararsi nell’abitazione del console canadese. Mentre il Presidente Carter approvava piani di recupero alla luce del sole e disastrosi, la CIA in assoluto segreto – un segreto caduto solo alla fine degli anni ’90 – attuò un piano di esfiltrazione audace che andò a buon fine. Argo è la storia di quel piano. E di come quel piccolo grande teatrino dei personaggi che è la CIA e Hollywood abbiano concorso per il buon esito dell’operazione.

Ben Affleck torna alla regia dopo The Town e ripropone il suo piacere per i modelli sotto copertura o d’infiltrazione. Ma soprattutto, mentre ribadisce il suo piacere per il genere spy e action, si apre a scenari ancora più interessanti e maturi. Che Affleck dietro la macchina da presa sia uno fra i registi di genere di maggior caratura della sua generazione è assodato. La sapienza che il regista di Gone Baby Gone infonde nei suoi film è palese, per una padronanza del mezzo e degli statuti di genere sbalorditiva. Adrenalina, turning point, strutturazione, ritmo, robustezza narrativa: tutti pregi afferibili all’operato di Affleck, qui come in precedenza. Ma in Argo l’autore compie un passo in avanti che è assieme poetico e maturativo e che soprattutto si permette l’ardire, nell’ortodossia di genere, di infondere nel film un meme che è sia diegetico che extradiegetico.

«Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male». Così proferiva Eduardo De Filippo. E, rimanendo sul suolo italiano, della messa in scena della propria vita, dei personaggi che possono abitare nella medesima persona e di come il mondo civile sia un unico grande teatro en plein air, le opere pirandelliane restano uno dei punti più alti dell’arte internazionale. Su tutto ciò ragiona Affleck, offrendo un’opera che riflette sull’attorialità e sulla fabbrica dei sogni che il nostro vivere significa. Fare tutto ciò in una spy story, va da sé, è quantomeno audace. Tony Mendez (Ben Affleck) è un agente della CIA che deve esfiltrare sei statunitensi in terra iraniana. Per farlo propone un azzardo: creare dal niente un film, “Argo”, e usarlo come copertura. Lungometraggio fantascientifico, “Argo” necessità di luoghi esotici come l’Iran per le proprie location e di un esile entourage che partecipi alla selezione. I sei rifugiati dal console canadese dovranno fingere di essere al seguito dell’operazione cinematografica (chi regista, chi sceneggiatrice e così via): solo così potranno avere salva la vita e tornare a casa. Ma la copertura deve essere perfetta, veritiera e non può perdersi in dettagli: assieme a loro, ma senza mai muoversi dagli States, dovranno esserci delle spalle che reggeranno il gioco. Tirare su una produzione fittizia, mettere in moto la macchina produttiva hollywoodiana con tanto di lanci stampa, uffici negli Studios e blasonato produttore di lunga fama a dare credibilità al progetto. Sembra vero ma non lo è, esattamente come la magia filmica prevede e pretende; in maniera speculare alla sospensione dell’incredulità che ogni spettatore prova durante la visione cinematografica.

Affleck architetta un’opera che è un grande tributo alla messa in scena, alla rappresentazione di noi stessi e alla macchina dei sogni e nel farlo non può che andare ad attingere alla fabbrica immaginifica per antonomasia, Hollywood e il cinema, che mentre è metafora dell’essere in maniera attoriale “altro da sé” è anche un’indagine sul significato che il cinema può arrivare ad avere nella società contemporanea. Perché se Argo è un film politico in maniera evidentemente testuale, lo è anche – e soprattutto – nella sua dimensione più allegorica. Il regista redige un pamphlet sull’importanza dell’arte come mezzo per scappare (e scampare) dall’inciviltà, su come essere altro da sé possa coincidere con un percorso migliorativo dell’uomo e come lo possa riscattare dalle brutture che lo circondano. Immaginare – qui inteso in maniera mai futile ma assai pragmatica – può aprirci a mondi migliori dal nostro, sia in termini intellettuali che politici, culturali e democratici. L’attore diviene qui ontologicamente mediatore fra sé e l’esterno, fra dimensioni multitestuali, fra paradiso e abisso. E, si badi bene, la vicenda è e rimane una storia vera, ad aggiungere ulteriore pregnanza al tutto.

A ciò si deve associare la competenza che il regista infonde nella sua opera, rendendo Argo un film godibilissimo dove la tensione non soffre mai il lungo minutaggio dell’opera (120 minuti). La composizione dei personaggi è granitica e crea dei protagonisti di genere chiari e incontrovertibili come interpreti di una partita di scacchi. La fascinazione spettatoriale su cui Affleck lavora è portata qui alle sue forme più sapienti, per le quali l’autore riesce a tenere salda l’attenzione dello spettatore nonostante non possa contare su una vicenda palpitante come The Town giacché Argo in più occasioni – per la sua stessa natura – deve confrontarsi con snodi più problematici e lenti propri dello spionaggio diplomatico. Nonostante tutto l’impianto è molto robusto, coadiuvato da molti comprimari – per un ottimo casting – che tengono viva l’attenzione, talvolta con inclinazioni briose e tal’altre con intenti più di raccordo.

Cinema militante e intelligente e la macchina da presa come arma: “la macchina ammazzacattivi”.

Emanuele Protano

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