Regia: Kenneth Branagh
Cast: Jude Hill, Caitrìona Balfe, Jamie Dornan, Judi Dench, Ciaràn Hinds. Lewis McAskie, Colin
Morgan
Durata: 1h e 38 minuti
Ci voleva un film come Belfast, con i suoi ricordi dolci e aspri, con la sua incessante voglia di
emozionare mentre accompagna lo spettatore sulla soglia di una drammatica pagina di storia
irlandese, per ridimensionare il narcisismo esasperato di Kenneth Branagh. La cornice è certo
beffarda: il film distanzia di poco l’uscita di Assassinio sul Nilo, questo sì una vera e propria
valanga di ego compiaciuto, diretto e interpretato dal Nostro pensando più a se stesso che a dame
Agatha Christie. Branagh ha impiegato cinquant’anni per portare sullo schermo la parte più intima e
privata di sé, raccontando un particolare capitolo della sua infanzia e il rapporto con genitori e
nonni. Fino a oggi, sullo schermo ha esibito volentieri il lato costruito e teatrale di sé affidandosi
agli adattamenti da Shakespeare, un lato spesso irresistibilmente tracimato anche nelle produzioni
hollywoodiane. Con Belfast invece torna nella sua città natale per la seconda volta, non fisicamente,
quella era già arrivata nel 1982 mentre girava per la BBC la trilogia Play for Today nei panni di
Billy Martin, ma spiritualmente, con un racconto nobilitante, onesto e coinvolgente. Un magnifico
film che lo riconcilia alle prove più riuscite del passato: da Gli amici di Peter (1993) a Nel bel
mezzo di un gelido inverno (1995).
Belfast racconta la storia del piccolo Buddy (Jude Hill). È l’estate del 1969 e per il ragazzino la vita
scorre tranquilla, tra immaginari draghi da sconfiggere con la sua spada di legno e lo scudo ricavato
da un coperchio di un bidone, e la scuola dove stravede per la compagna Catherine (Olive
McDonald). A casa è accudito dalla madre (Caitrìona Balfe), divide il letto con il fratello Will
(Lewis McAskie), mentre il padre lavora in Inghilterra. Buddy vive le sue giornate godendosi la
compagnia degli adorati nonni (magicamente interpretati da Judi Dench e Ciaràn Hinds) oppure
lasciandosi catturare dal fascino del cinema o della televisione con gli episodi di Star Trek. L’idillio
è però destinato a finire. A Belfast, durante quell’estate, si intensificano gli assalti dei protestanti
unionisti nei confronti dei cattolici repubblicani, la pace e l’armonia che fino a pochi istanti prima
regnava tra le due parti è spazzata via e rischia di trascinare con sé non soltanto i sogni e i desideri
di Buddy ma dell’intera famiglia.
Potrà anche aver atteso cinquant’anni, Kenneth Branagh, per ricondurre in via ufficiale il se stesso
più giovane sullo schermo, ma Belfast in realtà era già stato scritto. È un’opera che esisteva a
priori. Basta infatti rileggere il primo capitolo dell’autobiografia Beginning pubblicata nel 1989 per
seguire il percorso della memoria che l’attore e regista ha messo in campo nel suo film. Due facce
della stessa medaglia soltanto rettificate dai nomi dei protagonisti ma non dalle loro azioni, dalle
aspirazioni di giovani e adulti, sfruttando perfino dettagli singolarissimi (il detersivo in polvere
Omo o Shangri-la come destinazione di luogo dei sogni). Branagh li quantifica dando voce ora
all’ironia ora a una riflessione seria che espande le pagine della Storia (il conflitto nordirlandese
noto come “troubles”) alla dimensione privata. Costruisce un bellissimo romanzo di formazione al
cui centro Buddy irradia allegria, ingenuità e involontaria comicità; non è il mattatore che sarà, ma
il ragazzino puro messo di fronte a questioni più grandi di lui: l’amore, la religione, la politica. È
apprezzabile il coraggio e la mestizia con le quali Branagh trasforma in racconto quella parte della
sua vita, ma al bivio delle intenzioni mette in risalto una precisa consapevolezza cinematografica:
un’estensione passionale che si vede nella cura delle immagini (l’incipit è a colori e mostra i connotati noti di Belfast: i cantieri navali Harland & Wolff, l’hotel Titanic) e nel rewind delle pellicole che hanno segnato la sua infanzia: Chitty Chitty Bang Bang, Raquel Welch sensualissima in Un milione di anni fa. Manca giusto l’altro grande pezzo del mosaico cinefilo: La grande fuga con Steve McQueen. A questa particolare dimensione affianca un toccante ritratto familiare, tutto d’un pezzo, narrato senza esitazioni o flessioni esageratamente sentimentali. Chi era adorato allora, come i nonni, lo è anche su questo schermo. Raramente Branagh si è dimostrato tanto controllato nella scrittura e nella definizione dei personaggi. Si avverte nell’accumulazione di episodi e
situazioni descritte ancora qualcosa del suo rigore teatrale da capocomico, per tenere tutto sotto
controllo. Ma si avverte molto di più un desiderio di verità. Fa uso del bianco e nero, piuttosto
elegante, che come Nel bel mezzo di un gelido inverno bene si addice alla sfera degli affetti e della
nostalgia. Si affida a un perfetto cast di attori, però non rinuncia ai compagni di una vita più o meno
gravitati attorno all’esperienza della Renaissance Theatre Company: l’imprescindibile Judi Dench,
Michael Maloney e Gerard Horan.
Guidato dalle canzoni di Van Morrison, Belfast è Kenneth Branagh al cento per cento, ma questa
volta più vero, sinceramente ammirevole e addirittura più simpatico.