Ritroviamo il mondo avventuroso e magico di Zemeckis in questo film singolare e vibrante in cui il regista di Forrest Gump conferma il suo amore per il cinema come viaggio nelle esperienze più intime. E’ calato nel Belgio della seconda guerra mondiale il segno immediato di un racconto il cui ci viene chiesto di metterci al comando dell’aereo in fiamme in cerca di un atterraggio di fortuna, come il militare con fattezze da Big Jim che funge da ironico alter-ego di un popolo di eroi. Benvenuti a Marwen è immersione in un territorio in cui siamo precipitati come dentro un terreno di confini. Al pari del suo mentore Spielberg, Zemeckis è attratto da sempre dalle figure in volo, dall’esperienza del tempo modulata attraverso il pensiero immaginativo. Il protagonista è un artista che ha vissuto il trauma di una violenza di gruppo. Ha provato calci e botte per il solo fatto di essere un artista con una sensibilità spiccata e una passione particolare per le scarpe da donna, di cui possiede una grande collezione. La sua vita, ferita per il solo fatto di non essere un conformista, sperimenta il trauma e il cancellamento della memoria precedente quei fatti. Vive in una casa da solo, assistito dalle amiche che ritrova anche grazie alla sua arte, apprezzata con l’aiuto di quella solidarietà che allestisce per lui mostre di successo. In giardino, Mark ha ricostruito una riproduzione in scala del suo mondo immaginario, quel Belgio trasfigurato che è il passato ma anche il presente fantasmatico in cui egli vive e condivide le scorribande delle sue angeliche combattenti trasfigurate come delle Barbie. Come sempre, Zemeckis affianca dimensioni composite, il reale e l’immaginario, le temporalità e gli stati d’animo, saldando l’individuale e l’universale, l’intimo alla concretezza delle cose, ritrovando nel cinema il suo abituale terreno di sperimentazione. Per il personaggio, interpretato da Steve Carrel e ispirato al vero artista Mark Hogancamp che fu traumatizzato dalla violenza, le fotografie alle bambole rassomiglianti le sue amiche sono il tentativo di fermare un tempo che esplode e si divincola, ma sono anche l’amore per l’estetica, per i disegni e le fotografie con cui cerca di costruire una memoria. E’ il cinema, la rappresentazione di un tempo reversibile, a diventare il terreno artistico con cui Zemeckis si esprime, qui prendendo come tramite un individuo ferito, un po’ somigliante a Forrest Gump per le disillusioni e le emozioni che sperimenta. Il giardino è un luogo controllabile, ma come un prisma il film mostra un giardino più grande e contaminato, quello dell’esistenza dentro e attorno al personaggio, in una composizione di luci che richiamano il magico e le ossessioni d’autore, i persecutori nazisti e l’umiliazione del diverso e del differente, perché lo spirito anarchico e libertario dell’autore si conferma qui una volta di più. Fulgido, edulcorato, romantico e appassionante, Benvenuti a Marwen è un film che chiede di essere accolto e vissuto con attenzione e sorpresa. Come in Chi ha incastrato Roger Rabbit? Zemeckis padroneggia la scena di contaminazioni tra realismo e live-action: sorprendono i tempi e la disinvoltura con cui il regista sa muoversi tra le dimensioni passando da una sequenza in cui sono protagoniste le trasfigurazioni in mondo di bambola a quelle in cui i personaggi in carne ed ossa palesano l’umanità della loro presenza; quasi non c’è differenza tra le dimensioni, in questo racconto di sottigliezze e grazia, dove il sogno del personaggio è realizzato nel potere calzare le scarpe delle donne per “vivere la loro essenza”. Fuor di metafora, un film in cui si è artisti e si affronta il trauma e il corollario di una sentenza, mettendosi creativamente nel mondo e nella fisicità delle donne, viste come l’universo che ci salverà. All’occorrenza grintose, soccorritrici, streghe, manipolatrici (tra i si cela anche la signora Zemeckis), le donne sono il lato resistente a antinazista del luogo Marwen, un nome-simbolo che è unione di Mark e Wendy, personaggi di sogno ma feriti, cui il film restituisce una nota di calore e un omaggio sentito. Luogo dove il futuro è anche il tempo in cui si ha il coraggio di cacciare la fata maliarda e mediamente più strega, pericolosa sia per il protagonista sia per chi lo avvicini. Fa un ettetto tutto particolare il ritrovare gli interpreti in carne ed ossa rimodulati nelle fattezze di Barbie e Big Jim. Nella loro fisionomia gaudente si addensano quegli avatar che prendono vita trascinati sulla jeep da un protagonista che li vive nel suo pensiero con allucinata creatività. Attorno al personaggio ruota l’America che, rievocata nei tempi della seconda guerra mondiale, ha beatamente l’occasione di mostrarsi buona e soccorritrice. Ma in quel villaggio in scala ridotta c’è soprattutto una concezione del cinema come macchina sensibile di una temporalità plasmabile, dove l’amore possiede volti cangianti che da sempre appartengono per vicinanza emotiva al nostro immaginario al contempo intimo e universale.