A volerlo riassumere in una battuta il pluripremiato cortometraggio “Aria” potrebbe essere definito “cronaca di un amore violato.” Dominato dalla performance di una Barbara Sirotti. che mette in scena anche con l’ausilio della voce off, la vera sofferenza di un corpo e di una psiche traumatizzati durante la pandemia senza freni inibitori, forza continuamente i limiti canonici dell’uso del corpo in campo, soprattutto quando la sua figura viene filmata con cambi prospettici di inquadratura, come quello imbastito dalla videocamera di sorveglianza.
Sul piano estetico il corto oscilla fra le cromìe assai sature del bluette e del rosso scarlatto per una narrazione imperniata sull’apparenza dicevamo. Perché dietro la sensualità della Sirotti nella messinscena non solo liberatoria ed estetizzante come quella al centro delle opere di Gustav Klimt: ma tendente piuttosto ad un’impalpabile inquietudine, dove lo spettatore viola un’evidente intimità, trasformandosi in voyeur, si può anche ammirare la tensione verso l’autoannullamento.
Donna e insieme attrice piegata ma non spezzata dalla violenza maschile, Barbara Sirotti è uscita da un rapporto devastante, pareggiando la partita con la sua femminilità iconica e l’ideazione di questo progetto, di cui è autrice in tutto e per tutto pur avvalendosi del linguaggio filmico predisposto da Brace Beltempo. E allora la musa diventa l’artista, come da copione dei grandi drammi umani. Piuttosto in questo corpo attoriale è rintracciabile il potere della vita, della generazione, del piacere, alla pari delle mitologiche Giuditta, Danae, Igea che comunicano l’inconscia paura dell’uomo di fronte al mistero e al dominio femminile.
E di fronte allo strapotere femmineo l’uomo spesso risponde nella maniera più impulsiva e sbagliata.