Qualcuno forse ricorda che nel 2006 un film intitolato Red Road vinse il Premio della giuria al 59º Festival di Cannes. Si tratta del notevole lungometraggio d’esordio della dotata regista britannica Andrea Arnold, prodotto dalla Zentropa di Von Trier, il quale manteneva lo stile del Dogma 95. Alla Berlinale 2020 invece è stato presentato Dau. Natasha, uscito in una manciata di sale italiane il 26 agosto scorso, primo capitolo di un gigantesco progetto multidisciplinare che sul piano cinematografico ha superato persino lo sguardo della Factory di Trier di cui recupera, solo in parte, l’estetica a bassa risoluzione ma senza porsi nessun obbiettivo nei riguardi del fruitore.
Se le opere della Zentropa hanno spesso uno sguardo provocatorio nei confronti del pubblico, e nello specifico Red Road rientra in un genere ben definito: il thriller, Dau. Natasha va oltre tutto questo nascendo come esperimento socio-antropologico adeguato al linguaggio filmico.
Alla base c’è l’idea del cineasta sovietico Ilya Khrzhanovskiy, coadiuvato dalla collega Jekaterina Oertel, di realizzare in 3 anni un’opera-fiume di cruda documentazione (si parla di 700 ore di girato) ambientata nella Russia stalinista all’interno della scrupolosa ricostruzione dell’istituto Dau dedicato al celebre fisico Len Landau. La follia di questo progetto (che nel mentre è diventato anche un’esposizione di scatti sul girato a Parigi) è che gli interpreti quasi tutti non professionisti (eccetto la videoartista Marina Abramovic e pochi altri) sono stati consensualmente sequestrati per tre anni e costretti a vivere all’interno di questa ricostruzione storico-sociale.
Senza l’urgenza documentaria contenuta in Shoah di Lanzmann e rifuggendo l’empatia fictionale dell’Heimat di Reitz, Dau si staglia tra questi due fluviali capolavori come nuovo sguardo sulle possibilità di rappresentazione, facendosi documento testimoniale di una società e di un preciso periodo sociopolitico, dove l’ambizione artistica (ammesso che ci sia) diviene decisamente un elemento incidentale.
Con dodici film e quattro serie (di cui tre ancora in lavorazione) il quarantaseienne cineasta moscovita Khrzhanovskiy crea un monstrum di portata epocale che lavora con fredda amoralità su forma e linguaggio, abbattendo definitivamente il valore cultuale e rituale dell’arte (nello specifico quella cinematografica), varcando così i confini dell’ortodossia audiovisiva.
Dau. Natasha, accusato da più parti di essere un lavoro irricevibile e fallimentare sul piano comunicativo, nei suoi 135 minuti di durata riesce in modo stupefacente a farsi sguardo clinico e impersonale restituendo il disagio esistenziale all’interno della microsocietà di questo istituto scientifico.
Natasha e Olga sono due cameriere che lavorano presso la mensa del Dau Institute, zona di transito dove passa la più varia umanità tra medici, scienziati e militari, un luogo che odora di sudore, alcol e resti alimentari.
L’esistenza miseranda di queste due inservienti viene restituita con tonalità grigio-marroni (nella fotografia di Jürgen Jürges), movimenti di macchina traballanti e una quasi totale assenza di musica extradiegetica, mostrando persino un rapporto sessuale esplicito.
Ma il sesso, come la violenza, non ha nessun fine esibizionistico o provocatorio, quindi è pressoché impossibile parlare di pornografia dell’immagine in un contesto che evita drasticamente il minimo effetto di autocompiacimento.
Dau. Natasha, visionabile benissimo anche come operazione a sé stante, non denuncia e non accusa niente e nessuno pur rappresentando uno sconsolante ritratto femminile (come invece accadeva nella mediocre serialità di The Handmaid’s Tale), senza oggettivare grossolanamente i corpi e i sessi nel nome di un’evidente allegoria politica (vedi alla voce A serbian film).
L’opera di Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel è la liberazione della vita vera per mezzo di una costrizione spaziale dei corpi, di cui si percepisce quasi l’afrore umano, troppo umano.
Irrinunciabile capo d’opera che apre la strada a una nuova concezione di statuto dell’immagine.