Archivio film Cinema Netflix News — 20 Dicembre 2019

“Forse sono stupito dal modo in cui sei sempre con me

Forse temo il modo in cui ti lascio

Forse sono stupito dal modo in cui mi aiuti a cantare la canzone

Mi correggi quando sbaglio

Forse sono sorpreso per il modo in cui ho bisogno di te…” 

PAUL McCARTNEY 

Esiste nella filmografia del newyorchese Noah Baumbach, che a distanza di quasi cinque lustri conta una bella dozzina di titoli, un sottotesto da non interpretare come il fulcro nodale d’una visione registica; eppure, dettato da circostanze in linea con la frenesia della metropoli, questo sottotesto emerge inatteso a mo’ di chiave, qualificandosi come altra faccia dell’assetto narrativo. Così, in Mistress America, una scrittrice in erba si serve di materiale umano per essere accolta da un club universitario per aspiranti narratori: niente di meglio che lo stile di vita glamour, scanzonato e irriverente, della sorellastra Brooke e i segreti progetti di costei, per concretizzare l’ambizioso capriccio. La stessa Brooke inscena una pantomima, con tanto di palchetto e pubblico plaudente, per ottenere un prestito dall’ex partner. Lo si era già visto in  un titolo precedente di Baumbach, Giovani si diventa, dove il documentarista Josh, in attesa dell’occasione che potrebbe rilanciarlo, vede sottrarsi l’ambizione da un giovane ammiratore forse più talentuoso (ma all’uopo anche scorretto). Nessuno, sembra dire l’autore, è realmente sincero con sé stesso, temendo che la riposta sensibilità sia a uso e consumo d’una società che persevera nella propria cinica sopravvivenza; sicché la frase fatta “vai a far del bene alla gente” non è da leggersi quale edificante e obsoleto apologo morale, semmai come una strategia difensiva per non incappare nella coazione a ripetere. Nulla di strano che in Storia di un matrimonio, il cui titolo vagamente bergmaniano suggerirebbe da subito la crepa d’un ménage, l’incipit, complice un efficace montaggio alternato, ci mostri le parti in causa nel tentativo di discorrere i reciproci pregi senza risentimenti. Né suona insolito che il teatro off Broadway rechi la componente diegetica più basilare nella miseenscène caratteriale dei coniugi Adam Driver (feticcio di Baumbach: proprio il Jamie che defraudava Ben Stiller in Giovani si diventa) e Scarlett Johansson, rispettivamente regista e primattrice, alle prese con un divorzio sempre più dolente, che la divisione tra la Grande Mela e Los Angeles ostenta in modo anche più marcato. Come sempre in Baumbach – non nuovo allo spunto, ripensando a Il calamaro e la balena – è difficile provare qualcosa di attiguo alla simpatia verso i personaggi, negli egoismi e nelle contraddizioni, e il fatto che una separazione funga da epicentro azzera qualsiasi presupposto di parzialità, nonostante una delle parti, perlomeno all’inizio, non voglia saperne. Se l’ago della bilancia è il figlioletto conteso, la vera discrepanza si cela nel fragile milieu d’una sicurezza solo apparente, che risalta via via più labile quando Nicole, confidandosi con l’avvocato femminista Nora (Laura Dern), rivela la meschinità d’un coniuge forse fedifrago. Da par suo, la sfera legale non è che una sciarada spettacolarizzata che non nasconde l’aggressività, nel caso di Nora rivendicando orgoglio femminile, quando non carrierismo rampante (la controparte incarnata da Ray Liotta). E non molto può la figura dell’anziano consulente (Alan Alda), divorziato a propria volta, per venire a un umano compromesso. La teatralità si fa, in sintesi, tenore di vita dove chiunque è chiamato a recitare un ruolo (la goffa Cassie che, incerta su come dare la notizia della citazione di divorzio a Charlie, fa le prove in una tra le molte parentesi tragicomiche del film, prima che Nicole le rammenti che non è una performance). Così pure la parzialità, come ostenta la suocera Julie Hagerty, a favore dell’uno e non dell’altra implica avversità, se non un camuffamento d’odio maggiormente grottesco rispetto alle maschere che i protagonisti – lei da David Bowie, lui da Uomo Invisibile – indossano durante un funesto Halloween. Tale ostilità si mostra nella propria palpabile e deformante sincerità, nel bel mezzo d’un appartamento spoglio, luogo d’un tête-à-tête che, anziché far chiarezza, fa crollare farse e feticci, mostrando da parte dell’uomo una sofferenza sin troppo implosa che denuda la vulnerabilità dell’ex moglie. La sobrietà della situazione frantuma l’artificio, con tutti i bizzarri esiti del Caso (l’episodio dell’inviata del tribunale chiamata a valutare le capacità di Charlie nell’occuparsi del figlio, al termine del quale un banale incidente domestico per poco non dissangua l’uomo), prima di tornare a una serenità non più solo di facciata. Storia di un matrimonio è l’apologo d’un contrasto tra sentimenti (magari non d’amore, senza dubbio d’affetto), mai spenti e tuttavia impossibilitati a un’unione concreta, che nella dualità reale-finzione non sarebbe dispiaciuto a quel Seymour Chatman che teorizzò l’importanza – anzi, la necessità – della parte recitata nella vita. Being Alive, non a caso, è il successo di Broadway che un Charlie sconfitto (quanto più maturo e consapevole) intona malinconico al microfono in un sottofinale che, insieme alla citata scena del vis-à-vis, Driver gioca di risalto emotivo, rivelando un’inusuale bravura che ruba la scena all’impeccabile Johansson. Non si dimentichi che in tema di messinscene, in BlacKkKlansman dell’anno prima, l’ebreo Driver “interpretava” il collega detective nero per infiltrarsi nella congrega del Klan ed incastrarne gli adepti. Rileggendo l’Avery Corman di Kramer contro Kramer, ancora prima di pensare al suo celebre adattamento, fa specie che il “mondo di emotività compressa e ridotta a pura apparenza” di Baumbach, per citare Leonardo Gandini, si riscontri pressoché invariato tra le pagine di quel libro: ineludibile esito d’un processo, psicologico e sentimentale, dove il pubblico apparire fa da contraltare alla sfera più intima e privata. Oltre al nome di Benton, nell’ampio tracciato cinematografico degli sfaceli coniugali, inevitabili tornano alla mente Cassavetes, Mazursky, Nichols, Allen medesimo (come la presenza di Alda e Wallace Shawn confermerebbe), e per tal motivo, se si esclude l’ineccepibile confezione, Storia di un matrimonio è la riproposta in epoca postmoderna d’una produzione già sorpassata, il cui nostalgico registro fa i conti col percorso di crescita autoriale. Lo insegnava Bogdanovich, principale modello ispiratore di Baumbach: i classici del passato sono insostituibili e non si può far altro che rifarli. E nonostante le musiche di Randy Newman, è un peccato non trovare in colonna Maybe I’m Amazed di McCartney, altrettanto azzeccata per lo spunto trattato e impiegata nell’ingannevole preview.

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