In Concorso all’80.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è stato presentato, nella giornata del 31 agosto, il nuovo e molto atteso opus di Michael Mann, ovvero il biopic Ferrari con Adam Driver. Mann che è tornato alla regia a distanza di otto anni dalla sua ultima incursione dietro la macchina da presa, avvenuta nel 2015 col bistrattato Blackhat. Per la prima volta in assoluto or è approdato alla pregiata kermesse suddetta con un film, ahinoi e a nostro avviso personalissimo, assai insoddisfacente e ben lungi dall’essere quella pellicola importante che aspettammo da tempo immemorabile con trepidazione palpitante e infinita. Poiché Mann, dopo un’interminabile gestazione a riguardo, infatti bramò il sogno, or afferrato e finalmente concretizzatosi, di realizzare un film biografico sul celeberrimo Drake, fin dai primissimi anni novanta, ancor prima di Heat – La sfida, quando a incarnarlo doveva essere nientepopodimeno che Bob de Niro, ha, sempre secondo il nostro opinabile ma deciso parere irremovibile, girato un film sbagliato, probabilmente il peggiore nella sua filmografia pressoché magnifica e intoccabile che vanta capolavori come Manhunter e Insider. Nel corso degli anni, anzi, oramai decenni, Mann non ha mai mollato giustappunto il desiderio di portare la storia del famoso imprenditore sul grande schermo, opzionando prima Christian Bale e poi designando Hugh Jackman come suoi rispettivi interpreti principali. Ma, per svariate ragioni delle più disparate, a noi sinceramente ignote e da lui stesso tenuteci volutamente nascoste, per un motivo o per l’altro, dovette sempre puntualmente sospenderne improvvisamente la produzione finché, solamente l’anno scorso, cominciò a iniziare e scattare finalmente i primi ciak in terra modenese e nelle sue zone limitrofe.
Avvalendosi dell’apporto finanziario e co-produttivo nostrano, diciamo, e di quello attoriale del succitato Driver, affiancato per l’occasione da Penélope Cruz & Shailene Woodley. Trasponendo la sceneggiatura di Troy-Kennedy Martin (Danko) e, in alcuni punti salienti, ritoccandola leggermente lui stesso. Il Ferrari di Mann dura 2h abbondanti, purtroppo, perlopiù fiacche per gran parte del loro minutaggio. Si concentra, quasi esclusivamente, su un limitato, altresì primario e imprescindibile, momento topico della sua vita, precisamente vertendo sull’anno 1957, cioè un periodo esistenziale di Enzo Ferrari assai travagliato sia professionalmente che sentimentalmente, narrandoci specialmente il rapporto conflittuale che ebbe con la moglie Laura (Cruz) con la quale era in crisi matrimoniale, contemporaneamente illustrandoci, a suo modo, la torbida e sensuale relazione che instaurò, dapprima segretamente e poi rivelandola pienamente e pubblicamente, con la sua bella amante Lina Lardi (Woodley). Nel frattempo, Ferrari covò l’ambizioso e rischioso dream di preparare la storica, altresì tragica, corsa delle Mille Miglia ove a trionfare fu Piero Taruffi (Patrick Dempsey). Malgrado, come sappiamo, la dettavi corsa finì in un bagno di sangue, uccidendo semplici innocenti, a causa d’un mostruoso incidente stradale assai fatale. Sbilanciato, disorganico nel suo intreccio non poco sballato, Ferrari sbanda più e più volte a mo’ d’uno dei gareggiatori della Mille Miglia, intoppandosi nella sua corsa automobilistica, no, nel corso della sua narrazione sia fluida, sebbene tediosa, che cinematograficamente tortuosa e ricolma di scene onestamente da televisiva soap opera. Soltanto nell’ultima mezz’ora finale, Ferrari comincia a volare alto grazie a magistrali colpi d’aquila registici degni del miglior Mann. Tenendoci inchiodati alle poltroncine ed emanando bagliori luminosi e squarci ripieni d’afflato epico considerevole, malgrado siamo lontani mille miglia, no, anni luce, dall’epicità emozionante de L’ultimo dei Mohicani.
Ferrari, valutato nel suo complesso, delude non poco, sicuramente, va ammesso, vive di attimi sorprendenti e perfino magici, di frammenti visivi impetuosi, magmatici e visionari, “ribolle” e carbura però a fuoco troppo lento, s’inceppa, eccede in scenette ai limiti addirittura del disgustoso e ridicolo più corrivi, come quella della morte, cinica e rivoltante, peraltro mal girata in CGI, dell’autista sposo di Cecilia Manzini (Valentina Bellè), enfatizzando laddove non necessario. Per esempio la recitazione della Cruz è perennemente, eccessivamente melodrammatica e non siamo in un film di Almodóvar in cui sacro e profano si mischiano deliziosamente e tale mood interpretativo è dunque perfettamente calzante e squisito. Mann avrebbe dovuto tenerla a freno e non spingere invece sul pedale, metaforicamente, dell’acceleratore recitativo, asciugando inoltre l’intera amalgama del suo “sceneggiato” futuristico con più delicatezza. Ciononostante, a dispetto dei suoi clamorosi difetti marchiani, Ferrari non è certamente da buttare, sia ben inteso. Driver infatti, al solito, pur non eccellendo, offre una performance di tutto rispetto e, come sua consuetudine, ci dona una sentita prova corretta e carismatica, elegante e apprezzabile. Il Ferrari, cucitogli addosso da Mann, è irascibile, emotivamente scostante ma allo stesso tempo battagliero irriducibile, è sia tormentato che risoluto, affettuoso e subito dopo burbero e antipaticamente sprezzante, rispecchiando abbastanza fedelmente il ritratto dell’uomo Ferrari che, stando alle biografie, non cinematografiche, bensì saggistiche, ci è stato comunicato.
Ferrari non è brutto, è solo mediocre e da Mann, francamente, conoscendone e non affatto disconoscendone il talento smisurato, giustamente pretendevamo e vogliamo molto di più.