Archivio film Cinema News — 31 Ottobre 2021

E’ molto complicato riuscire ad essere allo stesso tempo moglie, madre, amante o semplicemente donna per un’icona nazionale del giornalismo. Questo è il problema esistenziale e identitario che riguarda da vicino France De Meurs, non solo massima esponente della comunicazione nel suo paese ma anche incarnazione sul piano iconico della Francia stessa (appunto nomen omen).

Dietro alla spettacolarizzazione delle lacrime in diretta e dei teatrini politici e di guerra, messi abilmente in piedi dalla giovane reporter e giornalista parigina, si nasconde il vuoto di una vita anaffettiva, avvitata attorno a un matrimonio spento e a un figlioletto respingente.

Un tragico evento aprirà il cuore e l’anima di France a una visione umana per lei decisamente nuova, per poi farla nuovamente ripiombare nel tragico mondo patinato del successo giornalistico-televisivo, una tomba di lustrini da cui uscirà a pezzi ma finalmente conscia di poter assaporare la vita reale, facendo anche i conti con la sofferenza quale dato biologico dell’esistenza.

Dumont ci ha abituati a un cinema che racconta una certa dissociazione del genere umano rispetto al modo di vivere comune, attraverso figure che vivono una propria diversità esistenziale e comunicativa.

Dal Pharaon di L’Humanité (suo primo capolavoro) alla coppia protagonista di Twentynine Palms, come del resto i simbolici protagonisti di Hors Satan e la famiglia di Ma Loute nell’omonimo film.

Sono tutti personaggi abitati da una visione primitiva della vita (a volte persino bestiale) ma spesso toccati da una certa purezza incontaminata, e France De Meurs vede l’umanità sotto questa luce, gente disperata come i migranti sfruttati cinicamente per un servizio.

La giovane e bella reporter comprenderà solo dopo diversi patimenti di essere lei a vivere in modo dissociato rispetto alla vera umanità e che l’autentico mostro è l’establishment mediatico di cui fa parte.

Dumont scolpisce un altro grandioso ritratto femminile controverso e polimorfo (dopo la sua straordinaria revisione musical su santa Giovanna d’Arco), una donna depositaria al tempo stesso di arrogante cinismo e fragilità emotiva.

La protagonista impersonata da Léa Seydoux è una figura magmatica sia sul piano strettamente emotivo che su quello di genere. Pur essendo molto più sfumato dell’Adrien di Titane, il personaggio di France possiede una mascolinità ideologica e imprenditoriale che poi viene sostituita dalle lacrime femminili in un continuo ribaltamento tra sentimenti e azioni.

L’opera di Dumont (come tutto il suo cinema) punta più all’anima che alla carne e il corpo è solamente il mezzo per esprimere questa sua poetica straziante e animista, attraverso una grammatica sempre più trasparente, procedendo per un’economia del profilmico che punta all’essenzialità dei significanti visivi. Ma attenzione il suo è pur sempre uno sguardo laico, e se il momento in cui France De Meurs si scioglie davanti a un episodio di sofferenza altrui può sicuramente rimandare a La circostanza di Ermanno Olmi, non vi è traccia della carità cristiana tanto cara al maestro bergamasco.

L’etica esposta da Dumont non possiede la grazia ispirata di Olmi, Bresson o Rossellini, ma una profonda e dolorosa riflessione filosofica sull’esistere.

Tra simulazione mediatica del reale e il suo referente umano, una commedia tragica che parte dalla satira per arrivare al cuore del (melo)dramma, disfacendo il volto di Léa Seydoux in un laboratorio di smorfie e contrazioni muscolari, carnefice e martire al servizio dell’odierno impero delle immagini.

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