Dopo il tremendo flop commerciale de I cancelli del cielo, che contribuì certamente
al naufragio della United Artists, ma non ne fu l’unico responsabile, l’uscita dei
successivi film di Michael Cimino fu sottoposta ad una vera e propria requisitoria da
parte di quasi tutta la stampa americana. Allo stesso modo fu accolto da noi Il
Siciliano: le recensioni apparse sui quotidiani erano piene di espressioni quali
“scemenza”, “bischerata”, “ottenebrata versione” e via offendendo. L’accusa più
frequente prendeva a bersaglio varie enormità storiche certamente presenti nel
film, la più pesante delle quali era la ricostruzione totalmente falsa del massacro dei
contadini a Portella delle Ginestre, in cui il bandito, distrutto da una violenza del
tutto sfuggita al suo controllo, scende disperato tra i morti ed i feriti colpiti dai suoi
uomini, poi solleva il corpo del fratello di Giovanna, sua futura sposa (altra palese
invenzione della sceneggiatura di Steve Shagan e Gore Vidal, non accreditato). In
realtà la Storia è volutamente tenuta fuori da questa ricostruzione, basata non sui
saggi di Pantaleone o sui romanzi di Sciascia sulla Mafia, bensì sul best-seller
omonimo di Mario Puzo, una sorta di sequel del Padrino (romanzo). Roberto
Silvestri, tra i pochissimi a cogliere questo punto fondamentale, scrisse (sul
“Manifesto” del 4/11/87) che Il Siciliano era collocato “in un tempo-spazio dove
mito, autobiografia, utopia e storia si abbracciano e svaniscono”. L’accostamento,
che parrebbe ovvio, a Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi è in realtà
assurdo: il film di Cimino si fonda sul mito, non sui fatti storici, totalmente stravolti.
In realtà il film, mutilato di ben 31 minuti (circa un quarto della sua durata, ma i
detrattori del regista si guardarono bene dal sottolinearlo), ribadiva uno dei temi
dominanti dell’opera di Cimino: l’America vista come sogno di libertà, come crogiolo
di etnie diverse, ma in realtà autentico incubo classista, fossa delle illusioni degli
emigranti non WASP, teatro di perenni scontri economico-social-razziali, da cui i
poveri migrants d’ogni origine e colore (v. I cancelli del cielo, L’anno del Dragone)
uscivano sempre con le ossa rotte, vittime di una storia matrigna, per dirla con quel
Leopardi di cui il professore mediatore dei mafiosi è un noto esegeta. Salvatore
Giuliano (non quello vero, quello del film) sogna di entrare nella Storia, di essere un
nuovo Alessandro Magno per la sua Trinacria, di cambiare il mondo aiutando i suoi
conterranei più sfortunati. Eliminato il sindaco di Montelepre (democristiano?) e i
suoi campieri, il bandito apre ai braccianti i cancelli della terra. Novello Cristo, o Che
Guevara (cfr. il suo cadavere su un tavolo all’obitorio), Robin Hood aggiornato e
trasferito in Sicilia circa 7 secoli dopo la sua leggendaria esistenza, illuso, come
Emiliano Zapata, che si possa vincere una guerra contando solamente su quattro
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straccioni senza scarpe, il Giuliano di Michael Cimino è un essere senza padre, un
perdente spuntato dal nulla e nel nulla riassorbito. La metafora dei quattro cerchi
(Mafia, Aristocrazia latifondista, Chiesa e Salvatore Giuliano, l’intruso, il ribelle che
non accetta le ataviche regole del gioco e pensa di poterle cambiare in un amen)
tracciati sul terreno come in un film di Raoul Walsh, è l’utopia di questo burattino
che pensa di recidere in un sol colpo i fili che lo muovono, di questo sognatore che si
crede agente, mentre è sempre agito, di questo pupo manovrato da invisibili pupari,
che, come gli ricorda sprezzante il principe Borsa (Terence Stamp), non avrà mai
l’eleganza, la classe dei nobili che sogna di spodestare. La Storia infatti cammina
nella direzione impressale da ministri come Trezza (sineddoche dell’intera
Democrazia Cristiana), da grandi porporati, da mafiosi come don Masino, che sfrutta
le ingenuità, le chimere di coloro che lottano per il cambiamento proprio per
impedirlo, per ottenere che, come nel Gattopardo, in Sicilia nulla cambi, mai. Il
“Signore delle montagne” si crede disceso sulla terra per fare del bene ai poveri, per
moltiplicare per loro pani e pesci, ma di “Salvatore”, come gli ricorda cinicamente un
uomo di Chiesa, ce n’è stato uno solo, e gli uomini l’hanno crocefisso. Resta
l’America come miraggio, come terra di Libertà, di Uguaglianza, di Progresso, ma in
realtà paese di emarginazione, sociale e razziale, di speranze deluse per gli
emigranti, da qualunque parte del mondo provengano: una pizzeria nel New Jersey
è la misera prospettiva che la duchessa americana violentata/sedotta (Barbara
Sukowa), prospetta al fascinoso fuorilegge, per un attimo incerto su un futuro di
quel tipo negli States. Giuliano, tramite la bella aristocratica, latrice di un suo
messaggio al Presidente Truman, pensa che la Sicilia possa rappresentare un’altra
stella da aggiungersi alla bandiera americana. La sua è solo una pia illusione, il
sicilian dream di un romantico bandito assolutamente cieco di fronte al destino che
altri gli stanno preparando e che, soprattutto, non sa vedere i bisogni reali della sua
gente, quel popolo di poveri cristi che egli crede veramente di aiutare. La questione
siciliana (o, in una visione più ampia, meridionale) è un problema di terra e di pane.
Giuliano offre la prima ai “picciotti”, guidandoli ad occupare le terre, ma è del
secondo che essi hanno fame. Non averlo capito segna la fine della leggenda del
bandito imprendibile, lo Zorro di Montelepre tradito e ucciso proprio da chi riteneva
il più fedele dei suoi seguaci, dopo però essere stato abbandonato da quelli che
sognava di soccorrere, di riscattare, di redimere. Certo non collocabile tra i migliori
film di Cimino Il Siciliano è coerente col resto della sua opera, e merita di essere rivisto e rivalutato.