Archivio film Cinema News — 28 Settembre 2022

A cura di Mario Molinari

Nato a Toronto nel1926, Norman Jewison è un regista e produttore dall’ampia ma disuguale filmografia che si dipana in più di 40 anni di carriera. (NOTA 1) Ha avuto 3 nomination quale miglior regista agli Oscar e ai Golden Globe, senza ottenere premi, se non, nel 1999, l’Irving G. Thalberg memorial award, riconoscimento attribuito al produttore più creativo consegnato nella cerimonia degli Oscar. I miei film preferiti sono, in ordine cronologico, Cincinnati Kid, Stregata dalla luna e Hurricane-Il grido dell’innocenza. Manca un saggio sull’opera complessiva di Jewison, che meriterebbe maggior considerazione. Nel 1967 egli si affermò a livello internazionale con La calda notte dell’ispettore Tibbs, un poliziesco ambientato nel Deep South, generalmente considerato un buon film sul conflitto razziale.  17 anni dopo Jewison, regista progressista ormai affermato, tornò sull’argomento, anche se l’epoca, i protagonisti e, soprattutto, l’ottica con cui erano osservati gli eventi erano cambiati. Scelse di girare un dramma teatrale dai risvolti polizieschi, A soldier’s play, scritto dal premio Pulitzer Charles Fuller, che ne curò la sceneggiatura. Ispirandosi ad una situazione complessiva reale, Fuller raccontava dell’assassinio del sergente maggiore nero Vernon Waters, collocandolo nel 1944 a Fort Neal, in Louisiana, una base che ospitava numerosi soldati afroamericani agli ordini di ufficiali bianchi. La presenza in loco di molti seguaci del Ku Klux Klan spinge il colonnello Nivens a far chiudere frettolosamente l’inchiesta sull’omicidio, temendo disordini provocati dai razzisti locali. Washington però invia il capitano Richard Davenport, laureato in legge a Harvard, per chiudere definitivamente il caso. Il guaio è che Davenport è un afroamericano, che, pur dimostrando doti e tenacia bastevoli per farcela, andrà incontro a fortissime resistenze, nello svolgimento del suo mandato, da parte di chi aveva già cercato d’insabbiare tutta la vicenda. Ottenuto il permesso di proseguire l’inchiesta, Davenport riesce a chiuderla in modo sorprendente per tutti, lui compreso. Gli scontri non solo verbali che la vittima aveva avuto con parecchi soldati neri e qualche ufficiale bianco condurrebbero ad un ampio ventaglio di soluzioni, ma grazie al suo intuito Davenport individua il colpevole: il soldato Peterson (un giovane Denzel Washington, con il fisico e la grinta giusti per emergere) ha ucciso Waters, a suo dire per vendicare un commilitone che la persecuzione del graduato aveva spinto al suicidio, per giustizia dunque, ergendosi di sua iniziativa a vendicatore dei suoi compagni. L’inchiesta di Davenport mette in luce uno spaccato piuttosto significativo delle condizioni degli afroamericani sotto le armi durante la Seconda Guerra Mondiale, evidenziandone i contrasti esterni– coi bianchi- e le contraddizioni interne, le speranze, le paure. È comunque la complessa figura di Waters (che Adolph Caesar interpreta ottimamente) a mostrarci, mediante un vero e proprio sdoppiamento di personalità (nell’interrogatorio un soldato ingenuo parlerà di due persone a proposito del modo di agire del sergente), le due facce, per dire così, del problema: l’integrazione, ovvero l’asservimento al white way of life, ed il rifiuto, la risposta violenta all’oppressione dei bianchi, in quell’epoca ancora poco diffusi. Dalla ricostruzione della personalità del vecchio sottufficiale si può vedere scorrere, passo dopo passo, una vita di disagi, di umiliazioni, di rospi ingoiati di continuo che l’hanno fatto ondeggiare tra una posizione e l’altra, partendo dall’originario orgoglio di appartenere alla razza nera per approdare al goffo tentativo di scimmiottare in tutto e per tutto gli odiati bianchi, assumendone addirittura linguaggio e modi nei confronti dei propri malcapitati confratelli. “Non avere non è una scusa per non prendere”, dice Waters sbronzo in un locale di Tynin, la cittadina che ospita la base militare, intendendo con ciò affermare che se i neri non hanno è solo colpa loro, o meglio di quelli tra loro –da lui identificati nei campagnoli, arretrati ragazzi del Sud agricolo- che rallentano il progresso di tutta la razza afroamericana. Qui sta il punto: il sergente Waters è, per Jewison e per Fuller, un razzista a rovescio. Durante la Prima Guerra Mondiale, in Francia, Waters e i suoi compagni uccisero un afroamericano proveniente dal Sud perché si era prestato a fare il buffone, travestendosi da scimmia con la coda, per divertire gli ufficiali bianchi e le loro amiche. Questa colpa remota- aver ucciso per i bianchi– lo macera, lo tortura, lo divora. Egli ha poi compreso di essere diventato un’altra scimmia con la coda per il trastullo dei bianchi, di aver sposato totalmente le loro regole, tentando di diventare un soldato senza particolare colore della pelle, ottenendo però solo di essere sempre ributtato al punto di partenza. Il colore della pelle non si cambia: “Continuano ad odiarci” – urla Waters a Peterson prima di essere ucciso, e dopo aver provato per l’ennesima volta, attraverso i pugni e i calci di un ufficiale bianco che il conflitto razziale in America è destinato a durare (per sempre?), che l’odio irrazionale dei bianchi verso i neri e viceversa è indelebile, incancellabile. Peterson invece è un anacronismo: il suo aspetto, il suo linguaggio, ma soprattutto il suo modo di fare lo collocano assai più avanti nel tempo rispetto all’anno in cui si svolgono i fatti narrati nel film, facendone una sorta di ribelle contemporaneo del film, ossia un nero consapevole della Storia e dei diritti della sua etnia della metà degli anni Ottanta. Il fatto che proprio il personaggio più cosciente del reggimento afroamericano sia l’assassino incrina considerevolmente il progressismo del film. Perché non c’è dubbio che per gli autori Peterson è un personaggio nettamente negativo, la cui violenza rischia di coinvolgere i suoi confratelli in un pericoloso e sanguinoso conflitto razziale. Il capitano Davenport (indubbio portavoce delle idee democratiche di Fuller e Jewison) ritiene Peterson un essere diabolico, che si arroga il diritto di eliminare fisicamente quanti, secondo lui, ostacolano l’emancipazione dei neri americani. Sorta di militante del Black Power ante litteram, Peterson manda in bestia Davenport con la frase autoassolutoria «Non ho ucciso granché”, durante una confessione baldanzosa, in cui sensi di colpa e pentimento sono del tutto assenti. Il finale poi conferma, anzi, gonfia l’ambiguità del film sulla questione razziale: l’immagine dei soldati neri che avanzano seguendo la bandiera a stelle e strisce e il vessillo del reggimento finisce per assumere quasi un valore simbolico, quello della marcia degli afroamericani tutti insieme, militari compresi, verso un futuro in cui squadre all-negro di qualsiasi sport potranno gareggiare alla pari con qualunque squadra di bianchi, senza alcuna discriminazione.  Contrariamente all’idea di Peterson, che ritiene ineliminabile la segregazione dall’U.S.Army, le guerre successive integreranno a tal punto i soldati black nelle fila dell’Esercito, della Marina e dell’Aviazione che  essi nel Vietnam saranno in percentuale ben più numerosi dei loro commilitoni dalla pelle bianca.      Girato in esterni a Fort Chaffee, in Arkansas, secondo i canoni del grande spettacolo hollywoodiano tradizionale, ottimamente interpretato da molti attori provenienti dai teatri che avevano ospitato il dramma di Fuller, magnificamente fotografato da Russell Boyd, fedele collaboratore di Peter Weir nei suoi film dell’epoca (Picnic ad Hanging Rock, L’ultima onda, Gli anni spezzati- Gallipoli, Un anno vissuto pericolosamente) o di qualche anno dopo (Master & Commander-Sfida ai confini del mondo per il quale ottenne l’Oscar nel 2004, e l’ottimo The way back, del 2010), “Storia di un soldato –scrivevo in “Film-Tutti i film della stagione” n.5/1985- rappresenta forse il massimo del liberalismo “vecchio stile” possibile oggi, sotto il regno del Presidente Reagan. Un cinema non privo di fascino, quello che sempre accompagna le opere di denuncia sapientemente costruite, ma irrimediabilmente datato.”  Un giudizio, profetico, se mi è permesso, in quanto, oltre 30 anni dopo, IL MEREGHETTI – DIZIONARIO DEI FILM 2017 (Baldini&Castoldi, Milano, 2016) scrive della pellicola: “Negli anni Cinquanta un film del genere sarebbe stato considerato progressista: oggi non è che un’esercitazione paratelevisiva, piena di luoghi comuni nella forma e nel contenuto.”

Nota

1) Dopo l’abituale gavetta televisiva dei directors della sua generazione, Jewison approda al cinema nel 1963 con 40 pounds of trouble-Venti chili di guai…e una tonnellata di gioia, una commediola con Tony Curtis, e gira il suo ultimo film nel 2004 con The statement-La sentenza, un thriller politico da noi apparso solo nell’home video. Nel 1949, non creditato, aveva recitato, in Canadian Pacific-Amore selvaggio, un western di serie C diretto dal modestissimo Edwin L. Marin.

Voglio ringraziare Renato Venturelli per la pazienza e la cortesia con cui risponde ai miei quesiti.

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