Archivio film Cinema News — 18 Novembre 2018

Vostro onore, ho tantissime domande da farle.
Credo che lei mi abbia fatto vedere il mondo con occhi diversi.
(Adam Henry)

Il Children Act fu promulgato nel Regno Unito quasi vent’anni orsono, nel 1989: con questa legge si intendeva tutelare benessere e diritti dei minori contro ogni benché minima minaccia, anche involontaria. Nel 2014 il romanziere e sceneggiatore inglese Ian McEwan – l’autore di Espiazione (2002) – pubblicò un romanzo, The Children Act (tradotto in Italia con il titolo La ballata di Adam Henry) che si rifaceva esplicitamente alla legge omonima, attraverso una vicenda a dir poco emblematica.
Oggi approda sugli schermi, prodotta dalla BBC, Il verdetto – The Children Act, trasposizione del romanzo di McEwan sceneggiata dallo stesso autore e diretta da Richard Eyre, ottimo regista teatrale e televisivo, noto – oltre che per Iris-Un amore vero, 2001 – anche per le sue precedenti trasposizioni di opere letterarie (Diario di uno scandalo di Zoë Heller, 2007; The Other Man di Bernhard Schlink, racconto da cui, nel 2008 trasse L’ombra del sospetto).
Si può, ovviamente, sollevare tutti i dubbi possibili, come hanno fatto alcuni critici, e dissertare lungamente sulla maggiore o minore fedeltà di Eyre al testo originale, sulla sua capacità di condensazione del racconto, sia a livello narrativo che emotivo.
Tuttavia, questi ragionamenti scivolano in secondo piano in un film come Il verdetto, capace di sviscerare i risvolti più amari e le conseguenze sulla vita degli individui dell’applicazione di una legge nata con l’intento di preservare e proteggere ma che nei fatti, come accade spesso a tutto ciò che è frutto di decisioni umane, arriva a provocare conflitti, drammi e rimorsi di coscienza, opponendosi all’esercizio del diritto naturale.
Non solo: la pellicola di Eyre, come il romanzo di McEwan, non si limita a questo, evitando di farsi incasellare nel pur brillante sottogenere dei legal drama: vola molto più lontano e più in alto, asciutta e incisiva nel plot, raffinata nello stile, forte, sopra ogni altra cosa, di tre splendide interpretazioni: quella di Stanley Tucci – l’attore di origini calabresi che ha debuttato nel 1985 con John Huston ne L’onore dei Prizzi e che ha ricevuto nel 2010 una nomination all’Oscar per Amabili resti di Peter Jackson – nel ruolo di Jack, il professore universitario in crisi sentimentale, marito paziente e deluso della protagonista; quella di Fionn Whitehead, il giovane attore inglese interprete principale di Dunkirk di Nolan, nei panni di Adam Henry, il diciassettenne affetto da leucemia sul cui destino l’Alta Corte britannica è chiamata a pronunciarsi; infine, ma non ultima affatto, quella di Emma Thompson, trent’anni di carriera, cinque candidature ai premi Oscar, due vittorie, come attrice protagonista in Casa Howard di James Ivory, nel 1993, e come sceneggiatrice per Ragione e sentimento di Ang Lee, nel 1996.
E’ splendida, qui, Emma/Fiona Maye, giudice specializzata in diritto di famiglia, professionista di altissimo livello, forte dell’esperienza maturata in una carriera pluridecennale, delle sue competenze, del lavoro indefesso che la conduce – paradossalmente – all’isolamento più totale da ciò che le ruota intorno, casa, famiglia, affetti (tutti concentrati in un’unica figura, quella di un compagno di vita messo sullo sfondo di una quotidianità senza novità e contraccolpi, senza giochi di bambini e leggerezza).
E’ splendida Emma/Fiona, che spesso viene inquadrata di spalle, persa nello studio dei propri complessi casi, che ogni giorno tornando a casa si riappropria dei medesimi gesti e consuetudini domestiche come estrema salvaguardia di se stessa e di un mondo interiore inscalfibile, nascosto dietro la maschera di imparziale freddezza.
Sono mirabili le sfumature che la Thompson riesce a trasfondere al suo personaggio, visibili nei cambi d’espressione, in una ruga sulla fronte, in uno sguardo, la contrazione del corpo, un passo rallentato: in ultimo, dentro quella fuga precipitosa in piano sequenza sotto la pioggia al capezzale di un ragazzo morente, non si sa se amato, e quanto, e come, e poi nel pianto dirompente e liberatorio, che spezza ogni argine e impalcatura sociale, rivelando – forse per la prima volta – la donna e l’essere umano.
Perché Fiona inaspettatamente comprende, a contatto con uno strano adolescente in apparenza sventato (rifiuta le trasfusioni che gli salverebbero la vita; sogna di navigare con lei per il mondo) e insieme molto più maturo della sua età anagrafica, professante un credo rigoroso e, a tratti, spietato, l’ineffabile e non giudicabile bellezza della libertà, anche da se stessi e dalle proprie convinzioni.
«My choice», afferma recisamente Adam, inchiodato alla propria malattia, in un letto d’ospedale e all’interno di inquadrature dall’alto sempre più oppressive, eppure così libero, così presente e adulto, come Fiona non è mai stata, a dispetto della sua impeccabile deontologia professionale.
Eppure, in questa storia di un incontro favolosamente umano e raro, anche Fiona ha fatto la sua parte: «Vostro onore, ho tantissime domande da farle. Credo che lei mi abbia fatto vedere il mondo con occhi diversi». Adam Henry lo sa, che senza l’arrivo di Fiona nessun mondo nuovo avrebbe mai potuto schiudersi, pur nel dolore e nel pianto.
Da questa prospettiva, la cieca ostinazione e la sventatezza (temi della lirica di Yeats Down by the Sally Gardens cantata da Fiona per volere di Adam) sono di entrambi.
M’invitò a prendere la vita così come veniva, come l’erba
cresce sugli argini;
Ma io ero giovane e sciocco, e ora sono pieno di lacrime.

She bid me take love easy, as the leaves grow on the tree;
But I, being young and foolish, with her would not agree.
[…] She bid me take life easy, as the grass grows on the weirs;
But I was young and foolish, and now am full of tears.

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