Per concludere la rubrica di Caterina Sabato dedicata a Boris – la fuoriserie italiana riproponiamo su Ciaocinema la sua intervista del 2012 a Mattia Torre, sceneggiatore e regista di Boris insieme a Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico
Cominciamo dalle origini: com’è nato il progetto Boris?
Ci è stato commissionato, nel senso che era un progetto con la firma di Luca Manzi e Carlo Mazzotta che era stato proposto a Fox e che non aveva trovato però il giusto sviluppo per un motivo che ora non ricordo. È stato proposto a me a Luca Vendruscolo e a Giacomo Ciarrapico e abbiamo trovato subito l’idea fortissima: il dietro le quinte ironico di una brutta fiction italiana vissuto da un giovane stagista. Questo soggetto l’abbiamo preso, l’abbiamo declinato noi nell’episodio pilota che è piaciuto a Fox e che ci ha commissionato di scrivere tutta la serie. Quindi Boris è nato così, da una straordinaria casualità: anche il produttore Lorenzo Mieli era a caccia di idee e noi eravamo pronti per sviluppare un progetto importante anche se piccolo.
Sembra evidente che per la scrittura di Boris vi siate ispirati al mercato americano. Anche perché fate diverse citazioni nel corso delle puntate. Ci sono delle serie televisive in particolare che vi hanno influenzati e se sì perché?
Sì e no. Noi eravamo, e lo siamo tutt’ora, grandi appassionati di serie americane, allora era il periodo di Lost, di Grey’s Anatomy, di Desperate Housewives, insomma le grandi serie americane. Ma Boris è una serie “artigianale”, cioè noi abbiamo fatto praticamente in tre sia la scrittura che la regia di 42 episodi, mentre in America una fiction è pensata da un team molto più vasto: c’è un creatore, molti sceneggiatori, molti registi il che dà una continuità formale e anche una solidità maggiore ma d’altra parte anche una certa standardizzazione del livello. Per cui le puntate si somigliano tutte, hanno tutte uno stesso livello di qualità il che è un bene da una parte ma limita le serie dall’altra. Invece noi facendo un prodotto “artigianale” abbiamo delle puntate che sono un po’ più deboli e altre più forti. In questo senso è molto diverso da una serie americana. Tu forse alludevi a un qualcosa che non c’è di solito nella fiction italiana: intanto una grande cura, anche se i mezzi che avevamo erano quelli di una fiction di basso costo, ma l’attenzione ai personaggi secondari, ai dialoghi, anche alle riprese era tale da costituire una differenza significativa con la fiction italiana. Sto generalizzando naturalmente, ma sono prodotti fatti partendo dal presupposto che comunque al pubblico va bene, o almeno questa è sempre stata la nostra sensazione. Quindi condivido la tua idea che Boris abbia, forse un po’ presuntuosamente una marcia in più però rimane un prodotto “artigianale”.
Boris è una serie innovativa che rompe gli schemi tradizionali della fiction italiana sia per i contenuti che per lo stile, è infatti sottotitolata la fuoriserie italiana. Per esempio, parlando della struttura questa è molto semplice, quasi priva di linee orizzontali che poi a partire dalla seconda stagione vengono sviluppate. Perché questa scelta?
La prima stagione era veramente una stagione sperimentale, infatti noi non sapevamo che ce ne sarebbe stata una seconda. Stavamo provando a realizzare questo stranissimo progetto: cioè una sit-com che però non era una sit-com ma che era anche un po’ una fiction, che non rispondeva precisamente ai parametri narrativi e della messa in scena della tradizionale sit-com. Semplicemente facevamo qualcosa che ci andava di fare e quindi è stata molto istintiva. La prima stagione infatti è più anarchica, più disordinata. Poi dopo, rivedendola e facendo una considerazione anche e soprattutto con la rete e con la produzione ci hanno invitato a cercare di fare un racconto più organico, ad accettare una sfida più grande, dare una continuità e quindi lavorare a delle linee orizzontali anche su un prodotto come Boris che era di mezz’ora. Se fai caso nelle sit-com le linee orizzontali sono molto lievi, noi abbiamo cercato di fare una fiction come se fosse di 50 minuti. Devo dire che l’esperimento è uscito abbastanza bene poi c’è qualche sottotrama che è riuscita e qualcun’altra di meno. Però era interessante vedere che anche in mezz’ora si possono raccontare due, tre storie orizzontali che poi nell’arco della stagione portano a degli sviluppi narrativi.
Nell’ultimo episodio di Boris 3 Alessandro propone ad Arianna di scrivere insieme un soggetto per una serie tv che parli della vita sul set, ispirandosi alla sua esperienza. In poche parole vuole scrivere una specie di Boris ma Arianna non crede che funzionerebbe. All’inizio c’è stato qualcuno che era scettico nei confronti di Boris?
Sì, diciamo che all’inizio, anche se generosamente ci è stata data la possibilità di fare Boris, con tutta la libertà che per noi era fondamentale, tuttavia c’erano delle perplessità sul successo di questa serie. Questo perché sembrava che fosse rivolta agli addetti ai lavori, che fosse troppo di nicchia, che fosse troppo sofisticata, che il dietro le quinte di una fiction fosse un ambito narrativo troppo limitato. Poi non era vero, soprattutto con la messa in onda attuale su Rai 3 sta facendo dei numeri pazzeschi che nessuno avrebbe mai previsto. Quello che propone Alessandro ad Arianna alla fine di Boris 3 è uno dei tanti scherzi metatestuali che ci siamo divertiti a scrivere.
Gli sceneggiatori de Gli occhi del cuore rappresentano tutti quegli scrittori (e non solo) che pur di lavorare sono disposti a fare anche delle “marchette”. Lei si è mai trovato nella condizione di scendere a compromessi e scrivere per prodotti di bassa qualità?
Per fortuna pochissime volte. I primi anni con Luca Vendruscolo ci siamo trovati a lavorare per un soap opera terribile che si chiamava Cuori Rubati, una specie di Un posto al sole però girato a Torino. Abbiamo fatto i dialoghisti per un anno, scontrandoci con tante assurdità e molte delle cose vissute allora le abbiamo poi buttate in Boris. Quasi tutto quello che c’è in Boris è vero, vissuto direttamente da amici e colleghi. Più che una “marchetta” era proprio per sopravvivere, era un momento in cui c’era solo quello di lavoro. Il fatto invece che la scrittura può portare ad arricchirsi scrivendo schifezze è un altro argomento che non ci riguarda, non abbiamo mai corso quel rischio per fortuna o per sfortuna.
René Ferretti fa di tutto per evolversi: in Boris 3 crede finalmente di girare una fiction di qualità ma fallisce. Stessa cosa accadrà nel film, finendo per girare uno squallido “cinepanettone”. In questo modo sembra che diciate che in Italia, per quanto riguarda la televisione, bisogna rassegnarsi al “brutto” e che la qualità è bandita. Ma Lei e i suoi colleghi siete riusciti ad imporvi e a dar vita ad una fiction originale, che ha lasciato il segno. Quindi la situazione in Italia non è poi così disperata? René potrebbe farcela nella realtà?
È una domanda interessante. Noi a volte prendiamo in giro con toni tragici, anche se comici, uno stato delle cose che è abbastanza deprimente, di persone che spesso si rassegnano appunto alla mediocrità. Come dici tu, Boris invece è l’esempio che invece ce la si può fare. Devo però essere onesto nel dire che Boris è come il Big Bang, è nato per una straordinaria casualità. Non sono venuti da noi perché eravamo pronti per scriverlo: è successo tutto casualmente e questo continua un po’ ad angosciarmi perché bastava che uno degli elementi non si verificasse e non avremmo mai scritto Boris e non so che cosa avremmo fatto oggi. Però naturalmente ci piace conservare un barlume di speranza, per cui l’eccellenza è una cosa perseguibile e talvolta anche realizzabile. È semplicemente un Paese in cui è un po’ più difficile realizzarla perché sembra che le cose belle, la cura e la qualità siano malviste. È un discorso complicato però un pochino è vero: quando ad un festival di Cinema viene presentato un film brutto spesso i colleghi sono contenti perché la bruttezza spesso è rassicurante. Cioè se uno fa una cosa brutta non mi costringe a fare una cosa bella, questo è triste ma spesso è così. Poi invece ci sono delle eccezioni luminose e speriamo che si moltiplichino.
René è sottomesso alle pressioni e alle assurde richieste della rete. Qual è stato invece il vostro rapporto con la casa di produzione di Boris, la Wilder?
Sia Wilder che Fox sono stati interlocutori ideali per noi perché hanno sempre dato fiducia al nostro lavoro, naturalmente monitorandolo, confrontandosi con noi. Noi abbiamo avuto una grande libertà, credo che si senta in Boris e credo che questo abbia costituito la differenza con altri prodotti ed è anche uno dei motivi secondo me del suo successo perché sentire in una fiction un dialogo reale, vero che puoi avere con un tuo amico, con la tua famiglia è rarissimo. Nella fiction italiana ci sono sempre delle riproduzioni edulcorate delle situazioni umane che viviamo, per cui è tutto finto, noi invece abbiamo cercato di fare quasi un documentario perché ci hanno dato la possibilità di farlo. Il linguaggio un po’ scurrile è esattamente quello che si usa nei set, tutto era il più autentico possibile e quest’autenticità ha dato un respiro a Boris che altrimenti non avrebbe avuto. Questo grazie al nostro lavoro ma anche a chi l’ha consentito: in questo caso la Wilder che lo ha incoraggiato e la Fox che l’ha permesso.
Avete trattato dei temi particolari e fatto riferimenti più o meno velati: avete parlato delle intromissioni della rete, della politica e anche della Chiesa Cattolica, dei pessimi attori, avete ironizzato su alcuni programmi Rai e Mediaset e anche sull’ormai ex “presidente degli italiani”. Per questi motivi ha mai temuto querele o di avere in qualche modo dei problemi per la sua carriera?
Te lo saprò dire in futuro. In realtà no. L’intento di Boris è sempre stato quello di prendere di mira un sistema, un mondo, un modo di ragionare. Talvolta poteva sfuggirci di mano la situazione e sembrare che ci fossero riferimenti precisi a persone, a situazioni, ma di fatto l’obiettivo di Boris è sempre stato quello di raccontare un intero sistema, un modo sbagliato di pensare le cose, di farle. Non ho mai avuto paura di querele perché non c’è mai stato un attacco personale, anche perché non sarebbe stato giusto. Se qualcuno ha sentito un attacco troppo diretto a qualcosa o a qualcuno forse lì abbiamo fallito perché lo scopo della fiction era quello di fare delle domande, non dare delle risposte o lanciare delle accuse. Prendere in giro il sistema Rai per cercare di capire perché una struttura pubblica poi si comporta in un certo modo, questo è un punto interrogativo. Paura quindi non ne abbiamo mai avuta. Boris poi è un prodotto molto piccolo, tutto è relativo, noi abbiamo avuto molta libertà anche perché è una fiction nata sul satellite, vista da alcune decine di migliaia di persone non da dieci milioni come Un medico in famiglia. Se fosse stata una fiction Rai non si sarebbe mai potuta fare: se un dirigente Rai fosse impazzito e ce l’avesse permesso avremmo avuto molti problemi.
L’umorismo di Boris è dissacrante e cinico soprattutto quando è rivolto ai due poveri stagisti: Lei come lo definirebbe?
Noi siamo in tre e abbiamo scritto Boris per tanti anni quindi è difficile dare una definizione. Non è un umorismo che ha un solo segno, è un umorismo cha ha tanti colori differenti, tante forme diverse quindi si passa dall’umorismo più nero alla battuta un po’ più facile, all’umorismo di situazione, alla semplice trovata, al monologo oppure alla performance dell’attore. È difficile parlare di un umorismo unico. Sugli stagisti come su altre figure professionali mortificate dai questo Paese e da questo presente noi abbiamo fatto uno scherzo spesso amaro, una commedia amara. Però in questo caso la comicità è anche un modo per raccontare delle cose, che talvolta ci sembra urgente narrare.
Il personaggio di Alessandro nel corso delle tre serie ha un cambiamento: da ingenuo e idealista finisce poi per entrare nei meccanismi perversi del set e per considerare normale qualsiasi assurdità (essere sottopagato, maltrattato, esaudire qualsiasi richiesta degli attori …) : è forse quello che una generazione di precari diventerà o è già diventata?
A noi ci divertiva che il povero Alessandro ad un certo punto passasse al lato oscuro della forza. È un salto che fa più di una volta nel corso delle stagioni ma questo non celava necessariamente chissà quale significato. È vero che mi sono spesso posto il problema di una generazione: che cosa succederà quando questa generazione, così martoriata dal precariato, dalla totale assenza di rispetto, di considerazione e di attenzione, prenderà domani il potere? Si vendicherà oppure no? Spero di no naturalmente, però la storia ci insegna che molte delle persone che oggi ricoprono ruoli dirigenziali in una maniera completamente demenziale sembrano volersi riscattare da anni e anni di gavetta. C’è qualcosa di doloroso e di conflittuale in tutto questo che spero che prima o poi si pacifichi. Ci piacerebbe che la tv fosse più improntata su dei valori di condivisione, anche di stimolo intellettuale, soprattutto che ci sia un po’ più di buona fede, bisogna stare a vedere, speriamo! Bisogna improntare un cambiamento e non conquistare la poltrona o la singola posizione di potere. Uno dei problemi della televisione oggi è che sembra governata da persone che si aggrappano ad uno stipendio, ad una poltrona e che hanno paura di cambiare le cose perché hanno paura di rischiare in prima persona. È uno dei motivi per cui Boris non è mai andata in onda sulla tv generalista per cinque, sei anni, neanche su Rai 3 o su La 7, nessuno che rischiasse in prima persona a dire: “cerchiamo di fare questo esperimento”. Adesso Boris su Rai 3 in seconda serata sta andando benissimo, è una grande vittoria.
Duccio e i tre sceneggiatori sono l’emblema dell’ “arte di arrangiarsi” tutta italiana che nel Cinema è stata rappresentata egregiamente da Sordi. Il loro comportamento è conseguenza del disincanto e delle delusioni ricevute nel loro ambiente o un modo di vivere innato?
Di Duccio raccontiamo spesso che vent’anni prima era un promettente direttore della fotografia, quindi in questo caso è chiaro che c’è stato un appiattimento, una rassegnazione ad uno stato delle cose: “tanto mi si chiede di fare una fotografia che non sia più bella di quella della pubblicità perché mai devo sbattermi e lavorare quando in realtà tutto va abbastanza in automatico e non mi si chiede di fare altro?” Quindi in questo caso c’è un malinconico appiattimento. Nel caso degli sceneggiatori invece, più giovani c’è una malizia imperdonabile perché la scrittura televisiva per anni ha fatto guadagnare tantissimi soldi ai giovani sceneggiatori e se ne sono fregati poi dell’etica e del significato delle cose che raccontavano. Può essere considerata un’opinione un po’ moralista però riteniamo che ci sia stata una grande responsabilità da parte degli scrittori che veramente si sono arricchiti scrivendo delle boiate. Quindi sono due approcci differenti: io trovo più malinconica ma forse più umana la scelta di Duccio invece meno perdonabile e un po’ più maliziosa e audace quella dei giovani sceneggiatori.
Il pesciolino Boris potrebbe rappresentare il punto di vista del pubblico che muto osserva e forse giudica. Se Boris potesse parlare secondo Lei come commenterebbe tutto quello che vede?
Una formula bella che trovò Giacomo Ciarrapico parlando del pesce nelle interviste è che è come se lui vedesse tutto attraverso la lente deformante dell’acquario, è come se fosse il punto di vista più giusto perché vede storto un mondo che dovrebbe essere giusto e che invece è allucinante. Per noi è una piccola mascotte, è stato sempre un elemento di punteggiatura. È chiaro che è il migliore di tutti, il pesce è il più puro.
In Boris come nella realtà il pubblico a volte può essere più spietato del Dottor Cane stesso: se un attore viene coinvolto in uno scandalo, come accade a Martellone, viene subito bandito e dimenticato e soprattutto se gli ascolti non sono alti un programma viene chiuso. Questo purtroppo accade anche se una fiction, una trasmissione merita: secondo Lei perché una grande fetta di pubblico in Italia si ostina a guardare i reality, i tronisti, i programmi trash?
Non sono tanto d’accordo perché penso che il pubblico in realtà sia stato mortificato negli ultimi vent’anni nel senso che quando tu abitui un Paese a quel tipo di normalità televisiva, cioè della televisione commerciale, delle televendite, delle “cosce”, della demenza, della comicità più triviale e volgare è chiaro che il livello di attenzione si abbassa o comunque non evolve. In questo senso se la televisione fosse stata più coraggiosa, più libera forse avrebbe sperimentato di più e offerto qualcosa di plurale. Per cui è chiaro che qualcuno può anche divertirsi con i “cinepanettoni” se però magari c’è anche altro. Però l’altro nella televisione italiana è stato molto limitato per tanti anni quindi oggi c’è un pubblico che segue dei programmi che non sono molto stimolanti sul piano intellettuale. Quindi in questo senso mi sembra che la televisione possa avere invece un ruolo di ripresa e di stimolo intellettuale, piano piano io spero che prenda questa direzione. Non trovo il pubblico peggiore del Dottor Cane perché lui ha delle responsabilità morali, di guida, ha un ruolo di comando, un ruolo decisionale, di responsabilità. Il pubblico non sempre può scegliere quello che può vedere, adesso di più con le televisioni satellitari, ma non tutti se le possono permettere però è chiaro che piano piano l’offerta si va allargando. Speriamo ci siano degli eventi di qualità che si possano seguire, ai quali ci si possa appassionare. Il pubblico italiano andrebbe risarcito secondo il mio modesto parere.
Come nascono tormentoni come: “a cazzo di cane”, “bucio de culo”, “dai, dai, dai”, “smarmella” ?
Sono veramente casuali, non le prevediamo mai, non potremo mai dire prima che una cosa sia girata o messa in onda: “questa sicuramente sarà un tormentone!” . Sono nati dei tormentoni su alcune cose e non su altre per motivi che noi non riusciamo a prevedere e tendenzialmente noi diffidiamo un po’ dei tormentoni: se tu noti molti nella prima stagione non sono ripetuti nella seconda o comunque non sono molto insistiti perché non c’è niente di peggio del tormentone perché è una cosa che stufa prima o poi. La noia è una delle realtà più pericolose che si possono verificare in una fiction per cui ci è capitato più spesso di dire basta su una cosa, di non insistere troppo e così “a cazzo di cane” è una cosa che si dice molto nella prima stagione e poi si perde. “Bucio de culo” è la battuta di un personaggio secondario, è una cosa che ci ha fatto ridere e l’abbiamo portata anche più avanti. In linea generale non siamo dei grandi fans del tormentone.
Definisco Boris una “metafiction”, proprio per la sua autoreferenzialità. Cosa pensa di questa definizione?
Va benissimo! Questa è stata la forza e la debolezza di Boris: la forza perché è interessante raccontare un dietro le quinte di un mondo che non si conosce e che a nostro giudizio aveva grosse responsabilità culturali. Grasso una volta in una recensione disse che parlare male della fiction è come sparare sulla croce rossa ma non è affatto vero: la fiction in Italia è un’industria ricchissima che è seguita da milioni e milioni di persone quindi ha una grande importanza nella cultura del Paese, se è brutta è un fatto grave, nessuno l’aveva mai denunciato o raccontato. Da un certo punto di vista la metatestualità di Boris, cioè una fiction che parla della fiction, in questo senso è una cosa positiva, la cosa negativa è che non è precisamente un tema aperto che riguarda tutti, né tutti sono interessati a conoscerlo. Non so se i tuoi genitori, o i tuoi zii o i tuoi parenti avrebbero mai visto Boris se tu non ne avessi parlato. Questo è un piccolo handicap perché è un prodotto un po’ più di nicchia.
Ci sarà Boris 4 ? Stavolta si potrebbe ironizzare sulla moda in tv di quelli che si possono definire “delitti show”, mi riferisco alla morbosa attenzione che molti programmi televisivi ormai dedicano a fatti di cronaca nera.
Ti stai candidando tu a scrivere Boris 4 quindi! Noi non ce la facciamo più onestamente: abbiamo fatto tutti e tre 42 puntate più un film, per noi Boris è una realtà molto scandagliata, molto esplorata. È vero quello che dici che di lati oscuri della tv continuano ad esserci e continueranno ad esserci, quindi gli argomenti probabilmente non finiranno mai però noi abbiamo bisogno di passare ad altro. Quindi non credo che ci sarà un altro Boris, ma abbiamo pensato che magari in futuro potremmo fare un grande ritorno magari una puntata per la tv, uno show con gli stessi autori e gli stessi attori, però non è Boris in senso classico non è la fiction, non è quel tema e quel mondo là. Ma è tutto da vedere, per ora abbiamo chiuso.