Non è facile stabilire il punto in cui finisce il conscio e calcolato divertimento estetico-narrativo e quello in cui inizia ad affacciarsi l’abborracciata maniera da multinazionale del gioco.
Oggi è sempre più arduo utilizzare gli strumenti analitici della critica cinematografica per poter stabilire la buona riuscita, o meno, di un film Disney live-action, questo perché con il tempo si è giunti a una forte ibridazione tra il film, in quanto prodotto di cinema, e il merchandising videofilmato da parco tematico.
Il primo vero prodotto che ha mosso verso questi parametri di ambiguità pseudo-filmica è stato La maledizione della prima luna di Gore Verbinski, ispirato all’attrazione Pirates of the Caribbean di Disneyland.
E se questo primo capitolo conservava ancora una certa aderenza al referente cinematografico, i successivi sono sempre più naufragati verso i marosi di un CGI mastodontico e fuori controllo.
Anche Jungle Cruise parte dal tentativo di restituire cinematograficamente una delle attrazioni tematiche della terra di Walt, ma dietro si annida una conoscenza della storia del cinema, del linguaggio fotogenico e della scansione narrativa che fa la differenza.
Diciamolo Gore Verbinski, tolto lo slapstick di Un topolino sotto sfratto e il perturbante La cura dal benessere, si è sempre dimostrato un metteur en scène incolto e pedestre tutto effetti, effettini ed effettoni (poco speciali), mentre lo spagnolo Jaume Collet-Serra è un abile manipolatore di generi e stili in chiave postmoderna. Qualche esempio? La sua versione femminista e intimista di Lo squalo con Paradise Beach – Dentro l’incubo, l’esplorazione dello psycho-thriller con derive freak di Orphan, e la rilettura slasher del classico con La maschera di cera.
Ora Collet-Serra cavalca il filone esotico-avventuroso, che un tempo ha fatto furore imbevuto nel technicolor hollywoodiano, e in mezzo ci piazza l’eterna battaglia tra i sessi recuperando il cliché del burbero solitario e della donzella che gli tiene testa a suon di battute.
La coppia Dwayne Johnson/Emily Blunt si muove sicura sul solco di una solida tradizione del buddy movie uomo-donna che va da La regina d’Africa (il più esplicitamente citato) a Il gran lupo chiama con Cary Grant e Leslie Caron, fino a All’inseguimento della pietra verde e Indiana Jones.
Ma se il super-classico di Huston e il dimenticato cult di Ralph Nelson affondano nella commedia, il film di Zemeckis e la saga spielberghiana sono già una parodia del classico. Inoltre a complicare le cose c’è Stephen Sommers che nel 1999 sforna La mummia, già al limite della parodia di un genere e di una stagione cinematografica.
A questo punto Jungle Cruise è parodia della parodia? Quindi fino a che punto i personaggi si cartoonizzano perdendo spessore? (in contro tendenza con il passaggio dal disegno alla carne dei nuovi classici live action).
Questa era un po’ la riflessione avanzata da Luc Moullet sulle pagine dei Cahiers a proposito di Intrigo internazionale di Hitchcock, ma eravamo nel 1959 in piena aura classica, mentre nell’anno domini 2021 l’entertainment, specie per famiglie e di taglio disneyano, ha sbriciolato ogni statuto di carne e di carta.
Jaume Collet-Serra ha ceduto al compromesso solo a metà, disneyzzando solamente il lato fanta-effettistico del film ma lavorando di sagacia narrativa sul versante comedy-adventure, e sfoggiando un’erudizione cinefila classica messa appositamente nel frullatore ludico da luna park.
Jungle Cruise è a tutti gli effetti la versione raffinata della saga piratesca di Verbinski, in cui c’è ancora spazio per la commedia, il romantico e l’esotismo tra il verde-acqua di una cascata e il rosato di un tramonto.
L’effetto CGI è relegato nell’angolo del gioco ottico, e la natura si ri-prende i propri spazi e respira come location immersiva e non dispersiva.
Dwayne Johnson, ormai volto eroicomico per famiglie, tiene faticosamente testa a una scatenata Emily Blunt, sensuale avventuriera con fratello omosessuale. In epoca di gender la Disney fa outing senza troppe dissimulazioni.
Ora però si teme l’inizio di una saga che molto probabilmente incrinerà il fragile compromesso tra arte dell’intrattenimento e multinazionale del gioco.