A volte capita, leggendo monografie su cineasti di qualsiasi epoca o paese, d’incontrare analisi che vanno oltre il mero giudizio estetico e che sanno tratteggiare in modo ampio e preciso l’ambiente sociale in cui si svolgono le vicende narrate e il quadro storico-politico in cui sono inserite. È il caso del bel libro che Claudia Bertolé, critica e docente universitaria a Torino, validissima conoscitrice del cinema dell’Estremo Oriente, ha dedicato a Koreeda Hizokazu, che da qualche anno si è fatto notare nei principali festival occidentali, ottenendo nel 2018 la Palma d’oro a Cannes per Affari di famiglia, suscitando così una certa curiosità anche nel pubblico nostrano a partire da Father and son (2013), primo suo film distribuito in Italia. Il saggio, prefato da Dario Tomasi, è l’aggiornamento di Splendidi riflessi di ciò che ci manca (Il Foglio, 2013), un libro scritto circa 10 anni fa dalla Bertolè che, pur mantenendo a grandi linee la struttura dello studio precedente, ne ha ampliato i contenuti, non solo perché nel corso del decennio la filmografia di Koreeda si è arricchita di ben sei opere, ma soprattutto perché essa ha svolto nella prima parte l’analisi di alcuni temi (im)portanti nell’opus di questo autore. Le fondamenta del cinema di Koreeda sono individuate nel sottotitolo del libro: la memoria consiste principalmente in personaggi, episodi, temi già presenti nelle opere semi-documentarie degli esordi, vere e proprie docufiction, al cui interno si trovano intrecci, situazioni, ruoli che riappariranno nelle opere successive, ma in forme più intense, più significative grazie all’esperienza conseguita dal cineasta, che decide di scrivere di persona le storie dei suoi film per sentirli più vicini alla sua personalità, più suoi. Non è il controllo totale che il regista in questo modo ottiene, ma certamente egli può lavorare con plot più accurati perché il successo dei suoi film, soprattutto in patria, ma in seguito anche all’estero, convince i produttori a mettere a sua disposizione budget più consistenti, mezzi assai più cospicui di quelli delle pellicole antecedenti. I nuclei familiari, elemento base delle storie narrate dal Nostro, sono quasi onnipresenti, ma variano di film in film, andando dalle finte famiglie che, per sopravvivere, rubano e vendono i piccoli altrui, senza cattive intenzioni (Le buone stelle, 2020) allo scambio in ospedale di due neonati (Father and son, 2013) da cui deriveranno, anni dopo, problemi etici e identitari duri da risolvere. Affari di famiglia (2018) infine è una sorta di resoconto al microscopio di vicende di maltrattamenti verso i figli e d’interventi salvifici (involontari, casuali) da parte di persone dai comportamenti poco affini a quelli della famiglia media nipponica. Il libro della Bertolè è utile sia a quanti conoscono bene gran parte dell’opera del regista giapponese, sia ai neofiti in quanto la sua analisi ampia ed acuta dell’intera filmografia del regista sa stimolare la curiosità degli spettatori nostrani verso un autore ancora poco noto. L’autrice ha inoltre il merito di scrivere in modo preciso ed elegante, soprattutto molto chiaro. Non ha cioè contratto il vizio, comune oggi a molti critici (non solo cinematografici), di utilizzare un linguaggio iniziatico, lessicalmente e sintatticamente contorto, reso ancora più astruso dall’abbondanza di insopportabili anglicismi attualmente in gran voga. Il gergo insomma di parecchi intellettuali che sembrano godere ad esprimersi così, quasi fossero membri d’una setta segreta. D’altronde che la Bertolé avesse il dono di una scrittura limpida, efficace e nient’affatto pallosa l’avevo capito leggendo il suo prezioso libricino La vergine eterna (Bietti, 2020), dedicato allo studio di Hara Setsuko, la protagonista di alcuni tra i migliori film di Ozu, nonché l’ottimo saggio da lei scritto per Il cinema di Robert Mulligan (Falsopiano, 2023), un volume collettaneo curato da me e da Fabio Zanello.