La sorte che è toccata a Bong Joon-ho è stata quella di essere stato scoperto tardi e in modo alquanto bizzarro dal pubblico italiano, sorte peraltro toccata anche ad altri grandi registi dell’estremo oriente, anzi molti di loro (purtroppo) non sono nemmeno mai stati distribuiti.
Il miracolo per Bong è avvenuto dopo la vittoria di Parasite agli Oscar 2019, trampolino di lancio per distribuire un prodotto coraggioso e linguisticamente “esotico” nei nostri cinema, riscuotendo persino una buona accoglienza di pubblico.
Dato il riscontro positivo gli esercenti hanno ben pensato l’anno dopo di distribuire Memories of murder secondo lavoro di Bong e suo primo capolavoro datato 2003. Ovviamente in Italia esce erroneamente come Memorie di un assassino (mentre in originale si parla di ricordi di omicidi).
Non c’è due senza tre e infatti lo scorso 1° luglio 2021 è approdato nelle nostre sale Madre, uscito in patria nel 2009, secondo capolavoro del cineasta sudcoreano e forse il suo punto più alto raggiunto fino ad ora.
Fuorviante la frase di lancio sulla locandina italiana: “Il miglior thriller hitchcockiano da decenni”, non avendo praticamente alcun elemento stilistico che rammenti il cinema di Alfred Hitchcock e non essendo propriamente un thriller.
Madre all’interno della breve ma intensa, e variegata, filmografia del regista è sicuramente l’opera più compatta e stilisticamente unitaria, dove i toni grotteschi e umoristici tipici dell’autore vengono asciugati quasi completamente, lasciando scoperta la tragedia nella sua forma più pura.
Il film è aperto dalla magnifica sequenza in cui una donna di mezza età in una distesa di grano improvvisa una danza cercando quasi un punto di incontro con il fruitore. Una danza disperata e liberatoria che cerca di superare la barriera schermica dell’inquadratura.
Anche in Madre c’è un delitto da cui prende il via un’indagine per la ricerca del colpevole, ma il tragitto che porta verso l’epilogo disvelatore evita il cliché poliziesco, che in Memories of murder veniva distorto parodicamente, esacerbando la follia materna fino a raggiungere un istinto feroce e belluino di protezione filiale.
Kim Hye-ja tratteggia con una recitazione sottile e sfumata questa figura materna persa nel proprio accanito e sinistro accudimento genitoriale, attraversando un percorso cosparso di sangue e pietà.
L’istituzione famigliare è il nucleo su cui Bong abbatte la propria mannaia, come nel successivo Parasite, ma con asciuttezza e lucidità, elementi che si fanno stile narrativo ed essenza formale senza compiacimenti e moralismi di sorta.
Il rischio è che la quasi totale mancanza di ironia e di invenzioni suggestive (come l’utilizzo di In ginocchio da te di Gianni Morandi in Parasite), possa far storcere il naso a gran parte del pubblico e invece è proprio questa volontà nel crocifiggere in immagini scabre il dolore e la disperazione senza sobbalzi ne trovate fulminanti che fa di Madre un’opera ascetica, capace di far dialogare l’umano con il divino. Quando è stata commessa una colpa c’è solo la catarsi per raggiungere la pace dei sensi e la pratica conclusiva dell’agopuntura diventa lo strumento di connessione con un aldilà, riprodotto dal campo di grano in apertura.