Primavera 1986. Sul lungomare di Santa Cruz, in California, c’è un Luna Park le cui luci artificiali diffondono un bagliore solo apparente. L’atmosfera è greve, pervasa da un immobile disfacimento. Le nubi in lontananza. Persino nelle azioni di un padre distratto, alle prese con il gioco del Whac-A-Mole, non traspare gioia ma i gesti tipici dell’automa. Poco distante, sulla spiaggia, una fatiscente casa degli specchi attende minacciosa che qualcuno varchi la soglia. La piccola Adelaide, come una novella Alice sulle tracce del Bianconiglio, entra in quel luogo oscuro facendo una scoperta che avrà delle conseguenze irrimediabili sulla sua vita. Fin dai primi minuti di Noi, Jordan Peele, al suo secondo lungometraggio dopo il notevole esordio di Get Out, si riconferma un regista capace di lavorare sulla forza di immagini, spazi e atmosfere in chiave assolutamente moderna. Gli anni Ottanta dell’incipit non sono infatti l’ennesima, sterile operazione di revival ultra-citazionista. Si fa menzione a Thriller di Michael Jackson nella maglietta indossata da Adelaide all’inizio, e poco più avanti, ai giorni nostri, a Lo squalo di Spielberg, sempre attraverso una maglietta. Ma non si tratta di semplici omaggi post-moderni. Non siamo dalle parti di Stranger Things, per intenderci, ma nemmeno totalmente da quelle del bellissimo It Follows – il cui direttore della fotografia Mike Gioulakis è lo stesso di Noi -, dove l’estetica anni Settanta rifugge l’impasse del gioco citazionista fine a sé stesso, celebrando piuttosto un approccio all’horror tipico di quella stagione cinematografica. Peele cala invece le icone della cultura pop degli anni Settanta e Ottanta nella rappresentazione di un’America ormai al crepuscolo. Trasforma quelle icone in oggetti di consumo, funzionali all’immagine di una società in cui, fin dalla prima sequenza, il benessere economico genera una sensazione di vuoto straniante, di latente malattia. Un’alterità che Peele veicola abilmente attraverso elementi familiari e apparentemente innocui (il Luna Park, la cornice familiare, l’icona pop). Nella prima sequenza – che culmina con l’irruzione del tema del doppio – è già contenuta quella relazione tra perturbante freudiano e critica socio-politica al centro di Noi, che diventa esplicita quando la famiglia borghese – con tanto di barca e casa al mare – di Adelaide (Lupita Nyong’o), ormai adulta, riceve la visita della rispettiva controparte malvagia.
Questi doppelgänger vengono dal sottosuolo, dove hanno sempre vissuto in miseria, costretti a nutrirsi di conigli crudi e a replicare come marionette le azioni degli ignari abitanti del mondo in superficie. Bramano vendetta e sono finalmente pronti a sostituirsi ai ricchi e fortunati originali. Per bocca del doppio di Adelaide, l’unico in grado di parlare, si definiscono americani – il titolo originale Us allude anche all’acronimo Unitated States -, sanando ogni dubbio sulla portata politica attraverso cui leggere il film. Dopo l’horror a sfondo razziale di Get Out, questa volta Peele amplia la prospettiva e rivolge l’attenzione su una nazione in cui, a distanza di trent’anni da Hands Across America, evento solidale a favore di poveri e senzatetto tenutosi appunto il 25 maggio 1986, non è cambiato nulla. Una nazione che, anziché combattere quotidianamente l’enorme disuguaglianza sociale, lava ipocritamente le proprie colpe in sporadiche iniziative mediatiche. C’è chi ha notato un certo didascalismo in questa seconda prova del regista americano, una necessità di indirizzare senza equivochi la lettura spettatoriale come limite principale del film. E in parte è anche vero. Ma del resto persino a un maestro dell’horror sociale come Carpenter – di cui Peele è degno erede – si concede un minimo di didascalismo, a fronte comunque di buoni risultati (pensiamo in particolare a un film come Essi vivono). Soprattutto, in Noi l’auto-esegesi a livello verbale non compromette il lavoro ben più interessante compiuto a livello non-verbale, in cui si gioca la vera posta del film. È infatti soprattutto attraverso la configurazione degli spazi – memorabile il visionario finale tra i sotterranei di Santa Cruz -, il lavoro sul sonoro – l’inquietante remix di I Got 5 on It di Luniz meriterebbe già una candidatura per il miglior montaggio sonoro – e in generale attraverso le atmosfere che opera il perturbante di Noi, raggiungendo momenti di notevole potenza immaginifica per lasciare libero l’inconscio dello spettatore di partorire le proprie associazioni. Noi è così un film sul sotterraneo, tanto in chiave sociale quanto come metafora psicologica. Conferma di una chiara visione autoriale – il lavoro sui primissimi piani degli attori afro, occhi sgranati e guancie madide di lacrime, è ormai una firma – che, proprio attraverso vie sotterranee, scava lasciando solchi nella coscienza, installando poco a poco l’inquietudine, anziché puntando su facili soprassalti. Lo spettatore esce comunque dalla sala turbato. Qualcosa è stato scosso. Sotto la superficie.