Dopo le strade bagnate di pioggia e di romanticismo della sua New York, Woody Allen torna alla vacanza europea, ambientando Rifkin’s Festival in Spagna e di preciso a San Sebastiàn in occasione dell’omonimo Festival cinematografico.
Mort Rifkin è la nuova maschera indossata dall’Io narrante alleniano, intellettuale, cinefilo e scrittore frustrato che come molti doppi maschili del regista solo durante un periodo di vacanza comprende che il proprio matrimonio-vita sta andando completamente a rotoli e all’orizzonte si sta presentando una nuova possibilità, ma bisogna saperla cogliere al volo.
Questo piccolo, tenero ebreo errante viene incarnato dall’ottimo Wallace Shawn, noto prevalentemente come caratterista (anche per lo stesso Allen) il quale conferisce al personaggio di Rifkin una certa universalità che diventa simbolo e astrazione di una profonda condizione umana.
Il mondo festivaliero diventa elemento oppositivo al pensiero di Allen, come vacua rappresentazione mondana contrapposta al romanticismo intellettuale del regista e del suo personaggio.
Con Rifkin’s Festival Woody torna all’inferno personale di Harry a pezzi, alle proprie tribolazioni con l’arte e la vita, ma con i toni di una pacificazione interiore che suonano quasi come il controcanto paradisiaco di un dantesco passato.
Ovviamente quello di Allen è un Paradiso perduto che lo porta a reinventare personalmente la storia del cinema (prevalentemente europeo) da Fellini a Truffaut, da Lelouch a Buñuel fino all’immancabile Bergman.
Più che omaggi-parodie quelli messi in scena sono degli autentici sogni-incubi di un passato artistico che non ritornerà mai più, e di cui bisogna almeno menzionare quello su Quarto potere, in cui Storaro si diverte a riprodurre il bianconero contrastato di Toland, e quello finale su Il settimo sigillo, con Christoph Waltz come tristo mietitore.
Il film si apre e si chiude con una seduta di psicoanalisi, quindi è chiaramente l’ennesimo viaggio nella testa di Allen, il quale come sempre non tralascia gli elementi autobiografici. “Ha paura di fallire, lui paragona il fallimento alla morte”. Questa ossessione di eterno fallimento che perseguita da sempre Allen, un tempo adolescente che ha iniziato a leggere i classici per avvicinarsi alle ragazze (come dichiara nella sua autobiografia A proposito di niente), diventa la sconfitta di un’intera generazione di utopisti romantici innamorati della cultura.
Rifkin’s Festival è una spassosa commedia sulla morte della cultura, contraddistinta da una profonda tenerezza verso i personaggi che mette in scena, i quali accarezzati da morbide carrellate proseguono la propria esistenza anche se questa ormai risulta priva di senso.
E’ il gioco del teatro della vita, del sogno shakespeariano (in una notte di mezza estate) abilmente messo in scena da Allen, regista-prestigiatore dal tocco sempre più impalpabile e magico.