Titolo: Roma
Regia: Alfonso Cuarón
Sceneggiatura: Alfonso Cuarón
Fotografia: Alfonso Cuarón
Montaggio: Alfonso Cuarón, Adam Gough
Scenografia: Eugenio Caballero
Interpreti: Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Nancy Garcia, Jorge Antonio, Veronica Garcia, Marco Graf, Daniela Demesa, Carlos Peralta, Diego Cortina Autrey
Produzione: Gabriela Rodríguez, Alfonso Cuarón, Nicolás Celis, Esperanto Filmoj, Participant Media
Paese: Messico
Durata: 135 minuti
Colonia Roma è il nome di un quartiere di Città del Messico, dove negli anni settanta la rigida divisione tra le classi sociali viene vissuta – e a tratti quasi esibita – come un dato naturale, insito nello stato delle cose. Cleo è una ragazza india che lavora per una famiglia della ricca borghesia, ed è anche il cuore pulsante di questo bellissimo Amarcord messicano che ha trionfato a Venezia 75. Alfonso Cuarón, dopo Gravity, torna insomma sulla terra, al suo Messico, probabilmente al proprio passato e alla propria infanzia.
Roma è un film tanto viscerale e commovente nei contenuti – dolore, abbandono, morte e in un certo senso rinascita – quanto controllato e rigoroso nello stile, come annuncia già il prologo che è un piccolo saggio di cinema e di poesia visiva, con il riflesso dell’aereo che attraversa una pozzanghera di acqua e sapone mentre l’instancabile Cleo lava il pavimento di un cortile eternamente sporco.
Mirabile esempio di stile per la sua limpidezza espressiva quasi geometrica, con inquadrature perfette e movimenti di macchina studiatissimi che nulla lasciano al caso, è un film di scissioni e opposizioni nette, dolorose, inconciliabili: bianchi e indios, ricchi e poveri, uomini e donne. Ma è anche, al contempo, la testimonianza di una solidarietà trasversale e tutta femminile, quella tra la giovane Cleo e la signora Sofia, che non avrebbero nulla in comune se non fosse per le ferite e le umiliazioni che, ognuna a proprio modo, semplicemente in quanto donne, finiranno per subire.
Perché Cuarón descrive, con un tatto e una delicatezza comune a pochi, un universo maschile rabbioso, cinico e distruttivo e anche, in fondo, misero, in antitesi a un universo femminile che sembra essere votato invece alla conciliazione, alla pacificazione, alla dolcezza, alla cura dell’altro e, in ultimo, alla costruzione e alla pianificazione di un futuro possibile. Futuro che sembra potersi concretizzare, non a caso, solo una volta che l’aggressività e l’insincerità sono definitivamente uscite di scena assieme a quei personaggi maschili che ne erano portatori.
A questo ultimo lavoro di Cuarón va riconosciuto inoltre il merito di uno sguardo mai bidimensionale o edulcorato, perché se è vero che l’affetto di Sofia e dei bambini per Cleo è autentico, è anche vero che i ruoli determinati da questa specifica dimensione sociale non verranno mai messi in discussione: Cleo è e sarà sempre colei che deve servire la famiglia. La complessità contraddittoria e densamente ambigua del reale è tutta qui.
Quello della protagonista è, del resto, il ritratto di un personaggio speciale, forte di una bellezza semplice e priva di vanità, capace di un amore infinitamente paziente e assurdamente inestinguibile; l’intera famiglia si appoggia a lei, nel suo calore trova coesione, della sua energia si nutre senza riserve. La sua mitezza, la sua voce dolce, le sue carezze sono l’orizzonte affettivo dei quattro bambini che cura e accudisce come fossero figli suoi. Nessun dolore, per quanto devastante, sarà in grado di mutare la sua natura, quasi fosse votata a un compito – quello di amare senza riserve – che misticamente la trascende.