Spencer è sostanzialmente una ghost story, un racconto natalizio di fantasmi ovviamente quelli che affollano la mente di Diana Spencer mentre fa un bilancio sul suo passato ed elabora la fine del proprio regale matrimonio con Carlo d’Inghilterra.
Siamo nel 1991, a sei anni dal tragico incidente, presso la magione reale di Sandringham nella contea di Norfolk che diventa letteralmente una casa infestata da presenze oscure, tra il passato che affonda gli artigli in un presente grigio e monotono e deliranti incubi che rievocano persino Jane Seymour.
Toccando l’apice della sua visionarietà il cinema di Pablo Larraín restituisce il privato principesco di lady D. attraverso una narrazione sospesa tra Kubrick, Lynch e Henry James, dove il reale si fonde con l’irreale, il sogno con la veglia e la Storia con la sua falsificazione romanzesca.
Forse dopo il suo periodo cileno, contraddistinto da un’estetica spoglia e sporca, Jakie e ancora di più Spencer possono in apparenza peccare di eccessiva ricerca formale, dove volti e oggetti vengono riflessi su specchi e superfici e tutto appare così rigorosamente e banalmente perfetto.
Ma in realtà dietro le quieta forma di una pulizia estetica si raggruma il male di vivere, autentica nausea dello stare al mondo quando è solo possibile procedere per inerzia.
Dopo Jackie, Spencer è il secondo capitolo sulla distruzione delle icone femminili rese fashion dai rotocalchi mondani. Se la Jacqueline Bouvier di Natalie Portman era una sorta di zombie sanguinante nel tentativo di rielaborare il lutto del consorte John Fitzgerald Kennedy, la Diana Spencer di Kristen Stewart (forse al suo capolavoro d’attrice!) è già spettro, una diafana presenza-assenza che fluttua malinconicamente tra stanze e corridoi e appare improvvisamente di notte in aperta campagna.
Il film è letteralmente un viaggio nello smarrimento identitario della principessa di Galles, non a caso l’incipit ci mostra una Diana indispettita e confusa che ha smarrito la strada di casa e vaga in auto per la campagna inglese avvolta dalla nebbia. Nebbia che continua ad avvolgere la sua figura in cerca di una risposta e crede, forse, di trovarla nella vecchia giacca dello spaventapasseri di suo padre che strappa al passato per dialogarci come fosse un feticcio paterno, una porta per connettersi con il mondo dei defunti.
Larraín reiventa a tutti gli effetti il gotico angloamericano, svestendo dell’aura principesca la protagonista e ponendola in linea con le figure femminili che abitano i classici del cinema gotico americano, da Rebecca di Hitchcock a L’ereditiera di Wyler, con le quali condivide il tormento esistenziale e la confusione mentale che si condensa nella labirintica struttura della magione, che si tratti di Manderley, Sandringham House o Buckingham Palace.
La Stewart tra soffocanti abiti da cerimonia e funebri velette inarca la propria figura, apre la bocca a metà e lancia sguardi attoniti e perplessi verso ciò che la circonda, sgrana un collier di perle nella minestra, le mastica insieme al brodo e poi barcollando si dirige verso il bagno e piegando il collo da cigno rigetta nella tazza del water.
L’icona auratica di Lady D. viene totalmente ridotta a uno stadio larvale, sottolineando anche molto bene la bulimia (da cui pare fosse affetta) contrapposta a un’estetica da food design che incombe sinistramente nelle cucine reali.
Dietro l’immagine spettrale della principessa fa capolino un’infanzia libera e selvaggia (degna della Holly Golightly di Capote), che riaffiora solamente in una scampagnata con la domestica Maggie e nel finale quando Diana canta in macchina insieme ai figli sulle note di All I Need Is A Miracle di Mike & the Mechanics.
Non è una chiusa felice ma solamente il sogno mentale di un happy end, mentre in realtà la principessa di Galles abita già nel regno delle ombre.