Regia: J.J. Abrams
Cast: Daisy Ridley, Adam Driver, John Boyega, Oscar Isaac, Carrie Fisher, Billy Dee Williams, Keri Russell, Anthony Daniels, Ian McDiarmid
Tutti a preoccuparsi sulla chiusura epocale di Star Wars e intanto la galassia “lontana lontana”, nonostante la tenacia dei titoli d’apertura, s’è dileguata alla chetichella. Certo non per ragioni di astrofisica. Star Wars – L’ascesa di Skywalker, il film conclusivo della saga diretto da J.J. Abrams, questa cosa la ribadisce con involontaria fermezza. Il formidabile big bang innescato nel 1977 dal prode George Lucas stava bene dove stava: nell’originale trilogia classica nata in un’epoca del cinema nella quale l’epica e il senso di comunione sullo schermo e in sala avevano un significato denso, carico di tutte le incognite del caso che oggi noi chiamiamo nostalgia al servizio della generazione dei quaranta-cinquantenni. Come densi ed esemplari non potevano che essere gli antidiluviani esercizi ginnici dei combattimenti o l’amorevole bellezza degli effetti visivi intervallati dai pupazzi confezionati dal geniale Jim Henson (vedi alla voce: Yoda). Tutto il resto, trilogia prequel/trilogia sequel, ha l’inconfondibile segno della profanazione anche se la mano resta sempre quella di Lucas. Non si tratta di un inno alla nostalgia talebana. La nostra è una sparata micidiale che guarda con disprezzo il mero marketing e un cinema forse non più in grado di raccontare le cose se non raspando nel strategicamente logico o nel programmato-sicuro (e guardate l’eccezionalità del piccolo schermo: una delle migliori stravaganze dall’universo Star Wars realizzate quest’anno arriva invece da The Mandalorian firmato da Jon Favreau, grazie soprattutto alla genialata kawaii del Baby Yoda).
Ho sempre trovato insidioso l’approccio registico “da appassionato” in qualunque saga cinematografica, preferendo il buon artigianato e la vecchia scuola: tipo Irvin Kershner, per restare in tema, che di certo fan sfegatato non era. J.J. Abrams, annoverato tra gli ortodossi fan che custodiscono memoria e pratica della saga e della sua fenomenologia, non fa eccezione. La partecipazione emotiva da cultore innamorato mescolata a quella del suo collega di pari sentimento, lo sceneggiatore Chris Terrio, non ha saputo produrre una appagante controproposta amorosa alle tribolazioni della galassia lontana lontana né in Episodio VII né in questo Episodio IX che tanto gli somiglia (anche se è indubbia la maggiore familiarità del regista rispetto all’intrusione nell’altro universo sci-fi per antonomasia: Star Trek). Paradossalmente i danni peggiori li ha provocati proprio George Lucas con la trilogia prequel, una delle operazioni asservite al mito Star Wars peggio concepite e gestite. Di un’antipatia congenita. Ma tant’è, la vita nella galassia lontana lontana deve andare avanti. E quindi: in Episodio IX tocca tirare le somme con il Primo Ordine in posizione di vantaggio rispetto alla resistenza; Kylo Ren veleggia impetuoso come una specie di Supremo Desslock nerovestito mentre i dubbi gli si attorcigliano giù nello stomaco per via di Rey, le cui origini, tanto reclamate e quasi dimenticate nel capitolo precedente da Rian Johnson, trovano finalmente una breccia insospettata (ma anche no, basta prestare attenzione ai dettagli della Forza). Segue quindi pandemonio di sviolinate amicali e avventure ai quattro angoli della galassia (il deserto di Pasaana, l’intimo paesaggio innevato di Kijimi) per ricondurre tutti, ma proprio tutti, alla risoluzione finale. Ivi compresa l’apparizione di un antico nemico la cui voce s’era palesata nel teaser del film rovinando ogni sorpresa.
In bilico sulla nostalgia talebana e il destino che Abrams e Terrio hanno disegnato per un degno epilogo, il meglio del meglio che L’ascesa di Skywalker può prospettare ai propri spettatori è in effetti proprio Rey. Nonostante le smagliature nel tessuto narrativo del capitolo di mezzo di questa ultima trilogia, tanto infide da sbilanciare la sua avvenuta maturazione come personaggio iconico, J.J. Abrams ha rifilato a Rey un orizzonte eroico amletico. Un ruolo che in tempi di femminilità rampante magari riformula ogni prospettiva rispetto all’Era Luke Skywalker senza tuttavia apparire davvero determinante ai fini della storia e dello spettacolo sempre sontuoso e uguale a se stesso (e d’altronde perfino in Tv c’è chi, come Arya Stark, ha già trattato a sufficienza tale materia). Una ricerca del proprio passato che è ovviamente la ricerca di una definitiva identità. L’ascesa di Skywalker non ambisce ai massimi sistemi, si accontenta di una rispolverata fenomenologica senza tenere conto dell’incredulità dello spettatore, cercando non le impennate ma una dignitosa discendenza dal film capostipite per accontentare i fedelissimi. A incriminare Abrams e i suoi sodali ci pensa un cast rimasto indietro di trent’anni, materiale d’archivio vivente di qualcosa che c’è già stato e che abbiamo già amato. Cast di personaggi a cui al massimo Abrams dona ironia e spiritosaggini (sì il colpevole sei tu Oscar Isaac). Può certo dar fastidio ma nel grande disegno di Star Wars sono incrinature che stanno incollate alla bell’e meglio per tirare avanti nel bombardamento di immagini, scene puntellate di azione e straordinari paesaggi.
Nella sua imperdonabile pacatezza esistenziale, L’ascesa di Skywalker non considera il requisito fondamentale che questo genere di favole fantascientifiche dovrebbe forse possedere. Un personaggio come Rey ha l’obbligo di condurci in un nuovo mondo, non lo stesso mondo di vincitori, sopravvissuti festanti e… Ewoks. Il film di Abrams sembra una gita nel piacevole mondo dei ricordi, ma fatto con troppa esitazione. Il rispetto per la tradizione in luogo della dittatura del digitale gli fa onore, così come la parata di guest star in cui è un piacere scorgere nientemeno che il compositore John Williams. Eppure, è davvero difficile attestare nel pantheon degli eroi davvero indimenticabili del cinema questa ultima esibizione della Forza. Il cinema sempre pronto all’essenziale di J.J. Abrams (qualità ereditata dalle sue origini televisive) iscrive L’ascesa di Skywalker in una proditoria filiale di eroi con superpoteri: fratellini di una galassia lontana lontana dell’estetica vista in Avengers e compagnia bella. È davvero questo il lascito finale che si intende glorificare? È davvero tutto qui il meglio che Abrams sa applicare alla “sua” passione? Il mondo sacro di Star Wars, allora, è preferibile onorarlo pensando alla principessa Leila ripescata da materiale inutilizzato di Episodio VII piuttosto che alla facile resurrezione di altri personaggi di questo film. Uno dei quali, niente nomi, è assolutamente inutile. Lei sì femminile e grintosa già quando passava da veste bianca a bikini mozzafiato; indimenticabile perfino ora che è passata direttamente nell’olimpo dei grandi di Hollywood. Meglio onorare (e amare) questo Star Wars affidandosi all’emozione di un momento, quando il film sceglie di congedarsi omaggiando una delle più belle scene del primo Star Wars: l’orizzonte solcato dai due soli sul pianeta Tatooine. Un orizzonte, ovviamente, pieno di nuova speranza.