The harder they fall è un western all black che segna l’esordio di un interessante
regista angloantillano dalla personalità e dalle ambizioni multiformi. Cantautore con
vari album alle spalle, Samuel da tempo guarda al cinema con attenzione, a partire
dalla consulenza musicale per Il grande Gatsby (2013) di Baz Luhrmann, seguita dal
mediometraggio They die by dawn, quindi dal debutto col presente film nel
lungometraggio per Netflix, con un budget, un cast e un’équipe tecnica di tutto
rispetto, in cui, oltre alla regia, Samuel ha curato il soggetto e il commento musicale,
scrivendo la sceneggiatura con l’amico Boaz Yakin. Il plot è semplice, racconta
(ricorrendo anche a personaggi davvero esistiti nel West, ma immergendoli in
vicende inventate, talvolta del tutto irrealistiche) la vendetta di un ragazzino, Nat
Love, contro Rufus Buck, il cattivo gigante che ha spietatamente ucciso i suoi
genitori. Dal fusto originario si diramano poi moltissime diramazioni, sottotracce
dedicate a molti comprimari, ognuno presentato sommariamente, ma con tratti
psicologici precisi (l’aspirante pistolero imbattibile, lo sceriffo che sa chiudere un
occhio per raggiungere i suoi obiettivi, il giovane addetto al ritiro delle armi
all’ingresso del saloon di Mary delle diligenze, che in realtà e una femmina) e, a
tratti, operanti in azioni della stessa importanza di quelle dei protagonisti. Scenari,
circostanze, incontri corrispondono a precisi momenti canonici del genere, che ne
presenta un abbondante florilegio: sparatorie, inseguimenti a cavallo, agguati,
massacri, scontri a mani nude in un saloon o nella polvere onnipresente, esplosioni
alla dinamite, e, ovviamente, duelli individuali alla pistola. Qui però ci si diverte
spesso a sovvertire tali topoi, ad aggirarli, ad offrirne delle varianti. Due esempi per
tutti: 1)in un’imboscata degli uomini di Nat Love, la banda degli Incappucciati
cremisi si difende come può, e uno di loro spara al proprio cavallo per farsene scudo,
andando contro ogni regola del genere western di qualsiasi periodo, dalla horse
opera agli anni classici ’40-’60 sino ai film di Clint Eastwood e oltre. 2) Uno scontro
mortale ha luogo a Redwood City tra le due compagne dei capibanda rivali, Nat e
Rufus. Mary Field/Zazie Beetz, che da sola gestisce il saloon di Douglasville e altri,
lotta contro Trudy l’insidiosa/Regina King (la regista dell’ottimo Quella notte a
Miami!) all’ultimo sangue e con ogni mezzo, in un combattimento ferocissimo che
termina in un magazzino di granaglie. In questo inedito (almeno per durata e mezzi
usati) scontro al femminile le due donne, assolutamente decise a prevalere sulla
“rivale”, ricorrono ad ogni tipo di arma, esclusi fucili e pistole che depongono a terra
in un tacito accordo: pugnali, il calcio di una doppietta, pugni a mani nude o con i
guanti, piedi, una pala per granaglie, un forcone, un ferro di cavallo… Raramente
uno scontro tra maschi ha raggiunto questo livello di violenza. In una collocazione
geografica totalmente inventata (il film è stato girato in New Mexico) Maysville, la
cittadina bianca in cui Nat deve compiere una rapina per risarcire Buck, è
satiricamente dipinta tutta di bianco all’esterno, mentre il grandissimo salone
bianco della banca ospita esclusivamente…clienti bianchi! Indubbiamente nella sua
parte centrale il film cala di ritmo, i dialoghi si fanno troppo fitti, anche se sempre
pieni d’ironia; tra le canzoni, scritte dallo stesso Jeims Samuel utilizzando rap, hip
hop, R & B, sonorità caraibiche e aperti rimandi alle canzoni degli schiavi, alcune
sono assai belle. Esse commentano l’azione, ma allungano troppo la durata del film.
L’eccessiva dilatazione dei tempi riguarda anche il finale: la sparatoria fra le bande
avversarie abbraccia oltre 20 minuti, in cui i buoni fanno strage dei cattivi, pur
subendo a loro volta molte dolorose perdite. Ad ogni gunman di Nat è riservata una
bella esibizione, fortunata o meno, in una infinita serie di duelli che precedono
quello risolutivo. Come in ogni western che si rispetti del resto, e seguendo
l’evoluzione impressa al genere dal western-spaghetti, qui imitato nelle sue versioni
alte (i film di Sergio Leone, o certe sottovalutate opere di Sergio Corbucci) oppure
nei popolari b-movies di Enzo G. Castellari o Mario Caiano. L’ambizioso Samuel vuole
apertamente ricalcare le orme di Quentin Tarantino (Django Unchained), di Steve
McQueen, addirittura di Sam Raimi (l’ottimo Pronti a morire, molto sottostimato).
Ma ci sono in The harder they fall anche aperte citazioni di grandi classici (i giochini
con la pistola che l’esuberante Jim Beckworth/R. J. Cyler ricalcano le più sintetiche
esibizioni di Dempsey Rae/Kirk Douglas nel bellissimo Man without a star-L’uomo
senza paura ,1955, di King Vidor) rimandi alla scoperta della Storia del dirty western
di Sam Peckinpah, Arthur Penn, Robert Mulligan o Abraham Polonsky. Solo che la
storia di cui Samuel vuole occuparsi è quella degli afroamericani che, pur
costituendo un quarto della popolazione del West sono stati completamente
ostracizzati dal cinema americano dalla New Hollywood come da quella dei suoi
predecessori. Perfettamente allineato col movimento che intende al contrario
riportare alla luce il contributo dei neri alla Storia degli Stati Uniti in film di ogni
genere (horror, drammi o melodrammi, thriller, gangster e war movies) il poliedrico
Jeymes Samuel è per me un cineasta da seguire con la massima attenzione.