A circa due settimane dalla fine della 76a Mostra del Cinema di Venezia si può fare un bilancio a mente fredda sulla manifestazione, sui suoi singoli film e sui suoi risultati complessivi.
Ciò a partire, naturalmente, dalla vittoria di “Joker” di Todd Phillips, che ha diviso gli addetti ai lavori ed è probabilmente destinata a segnare uno spartiacque sul futuro del festival e della sua concezione culturale.
Questo non tanto per la qualità del film (giudicato generalmente molto buono), ma perché è la prima volta che un cinecomic (per quanto sui generis) pensato per il grande pubblico viene inserito in concorso e premiato con il riconoscimento più importante.
E se da un lato, le decisioni del direttore Barbera prima e della giuria poi vanno considerate come degli importanti gesti d’apertura a un tipo di cinema tendenzialmente snobbato dai festival perché ritenuto troppo popolare e commerciale, dall’altro vi è il rischio che questo Leone sposti eccessivamente la Mostra verso Hollywood, relegando in secondo piano quella che forse è la sua funzione più importante, ovvero la ricerca di autori e cinematografie meno in vista. E, in effetti, negli ultimi anni la manifestazione ha strizzato con sempre più forza l’occhio alle produzioni americane, anticipando – come il festival di Berlino degli anni ’90 – i protagonisti degli Academy Awards, si pensi a “Gravity”, “Birdman”, “Il caso Spotlight”, “La La Land” e “La forma dell’acqua”.
Al di là del palmares, il livello generale è stato comunque piuttosto alto, con una selezione ricca di grandi nomi, che spesso hanno però portato le loro opere minori, anche quando molto buone.
Il primo pensiero in tal senso va a “Ema” di Pablo Larraín, film dove l’autore cileno cambia il suo registro poetico raccontando con ironia, musica e danza la storia intimista di una giovane donna alle prese con il proprio desiderio di maternità. E anche se il risultato è affascinante e interessante nella sua estetica pop e nei suoi possibili sottotesti, è evidente che siamo di fronte a un lavoro minore, in quanto più piccolo e meno ambizioso rispetto ai titoli precedenti del cineasta latinoamericano.
Anche “J’accuse” rientra nella categoria sopra descritta: molto elogiato dalla critica, quello di Roman Polanski è sì un ottimo film storico, apprezzabile per il rigore della messinscena e per il particolare punto di vista con cui racconta l’affaire Dreyfuss, ma che difetta di una prima parte troppo didascalica e a tratti un po’ televisiva, che allontana l’opera in questione dai capolavori del cineasta polacco.
Ha poi decisamente deluso un altro regista molto atteso alla Mostra, James Gray, che con “Ad Astra” firma un’opera visivamente affascinante e con diversi spunti interessanti, ma che non riesce ad approfondire adeguatamente le tematiche affrontate (in primis, il rapporto padre/figlio, vera ossessione dell’autore) e che soffre di una lentezza persino un po’ compiaciuta.
Chi invece ha portato al Lido il suo lavoro più maturo è Noah Baumbach: il suo “Marriage Story” è un lavoro sentito ed equilibrato, mirabile per una sceneggiatura che alterna in modo pressoché perfetto dramma e commedia, minimalismo e momenti enfatici. Il tutto sorretto dalle ottime interpretazioni di Adam Driver e Scarlett Johansson, ma anche da una regia capace di cogliere tutti quei piccoli gesti rivelatori dei sentimenti più nascosti e delle evoluzioni più importanti dei personaggi. Elementi che rendono quello del regista statunitense uno dei migliori film della manifestazione, ingiustamente lasciato a bocca asciutta dalla giuria presieduta da Lucrecia Martel.
Buona la selezione italiana: Mario Martone con “Il sindaco di Rione Sanità” porta un film dichiaratamente meno ambizioso, più teatrale che cinematografico, ma comunque ben diretto e recitato; Franco Maresco con “La mafia non è più quella di una volta” realizza un documentario di un’ironia amara e tagliente sull’utilizzo ipocrita e strumentale di icone storiche dell’antimafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; mentre con “Martin Eden” Pietro Marcello firma un adattamento letterario libero, suggestivo e coraggioso, che grazie allo sfruttamento dialettico e semantico del materiale d’archivio riesce a portare avanti un discorso più ampio sui moti e le contraddizioni del Nocevento.
E sempre per il buon uso del repertorio va segnalato “Il varco” di Federico Ferrone e Michele Manzolini (Sconfini), film che adoperando soltanto l’archivio e il voice over del protagonista racconta la storia di fiction di un soldato italiano che durante la seconda guerra mondiale parte per la campagna di Russia.
Ma oltre che per la qualità dei suoi singoli titoli, un festival va valutato e analizzato anche per la sua capacità di riflettere e rispecchiare il proprio tempo, le sue problematiche e le sue tendenze.
In questo senso, il fil rouge della manifestazione è stato lo scontro tra popolo ed élite, con quest’ultime che spesso si arroccano su se stesse per difendere lo status quo. Una tematica, quest’ultima, affrontata da opere molto diverse tra loro: “Joker”, dove il protagonista diventa suo malgrado il simbolo di quei cittadini che si rivoltano contro una classe dirigente che li ha emarginati; “J’accuse”, nel quale i militari sono disposti a tutto per di non ammettere l’errore commesso su Dreyfuss e difendere così la loro reputazione; “Adults in the Room” di Costa-Gavras (fuori concorso) mostra invece quanto la Troika – durante le trattative del 2015 sulla crisi greca – sia stata pregiudizialmente contraria ad ogni proposta del governo Tsipras/Varoufakis, considerato un pericolo per il sistema rigorista e neoliberista.
Tutto ciò in un’edizione non priva di limiti e contraddizioni, ma complessivamente riuscita nella sua capacità di far discutere e di rispecchiare la propria contemporaneità, cinematografica e non solo.