Dopo la distruzione del sogno americano risorge un classico (per molti intoccabile)
come West Side Story.
Proprio dal basso, dalle rovine di una città e di una nazione si apre questa magnifica
rinascita cinematografica, un’operazione che se sulla carta poteva lasciare molto
perplessi a conti fatti risulta uno dei più importanti film americani degli ultimi anni e
un’autentica riemersione del musical (in quanto genere) dagli abissi di un lontano
passato cinematografico.
Analizzando l’incipit e i titoli di testa è già possibile riscontrare la volontà di superare
l’astrattismo grafico del title sequence firmato da Saul Bass nella versione del 1961
diretta da Robert Wise.
Polvere di mattoni e terra sono la materia da cui fuoriesce l’odio razziale delle guerre
tra le bande dei Jets e degli Sharks e Spielberg fin dall’inizio ci immerge in una realtà
fisica dove i corpi sudano, si sporcano, lottano e si feriscono, pur tracciando nello
spazio scenico ariosi passi di danza.
Il West Side Story premiato con ben 10 Oscar, già figlio dell’omonima pièce di
Arthur Laurents, diventato pura mitologia hollywoodiana anche grazie al divismo di
Natalie Wood con la complicità di Rita Moreno, Russ Tamblyn e George Chakiris,
rivisto oggi mostra qualche ruga.
Le sue geometrie, i suoi cromatismi e le sue coreografie se raffrontati alla versione
odierna risultano più formalisti e meno empatici.
Nonostante l’importanza storiografica e iconica, il film di Wise sconta a posteriori
una certa rigidità del punto di osservazione della macchina da presa e al tempo stesso
un eccessivo astrattismo dei corpi in azione.
Anche nelle sequenze topiche del musical (sulle meravigliose sonorità di Bernstein),
la macchina da presa osserva rigidamente l’azione senza produrre una dinamicità
immersiva. Mentre nella versione aggiornata piani sequenza e carrelli in avanti e
indietro danno fluidità spaziale esaltando la potenza emotiva del profilmico e del
sonoro.
Nel remake evergreen come Maria e Tonight non risultano semplici numeri canori
ma diventano l’epicentro emotivo, polarizzando l’azione dei corpi e della città stessa
che vive e respira insieme ai personaggi.
Il doppio movimento dei corpi e della macchina da presa diventa determinante come
atto risorgimentale di un genere (il musical) e di un cinema americano che chiede di
essere rifondato.
Il musical (genere aureo per la Hollywood classica), oggi viene assai poco praticato
come del resto il western, generi che necessitano di mezzi dispendiosi vivendo di una
grandiosità scenografica.
Spielberg autore abissalmente distante dalle mode del momento e sempre più vicino a
un linguaggio neoclassico, ripropone un’idea di cinema aperto ai gradi spazi, quel
cinema capace di edificare set-città in cui muovere orizzontalmente (e liberamente) i
corpi, accompagnandoli con la mobilità del mezzo tecnico.
Qui non si tratta di postmodernismo alla Luhrmann e nemmeno di revisionismo
kitsch alla Rob Marshall, ma superando persino il raffinato modernismo di Chazelle
(La La Land) Spielberg mette in atto un’operazione di rivivificazione del canone
classico attualizzandolo ai rigurgiti sociopolitici del presente.
West Side Story è un’opera di ri-nascita artistica, nella speranza di ri-costruire una
nuova forma di spettacolo cinematografico ma al contempo con la consapevolezza di
un american dream irrecuperabile all’interno di una profonda ferita sociale.
Ecco perché rispetto al 1961 qui troviamo una perfetta empatia tra sguardo e corpo,
un’aderenza tra spettacolo e tragedia attuale, esaltando temi da sempre cari a
Spielberg come quello del razzismo, della disparità sociale e della problematicità del
diventare adulti.
Sì West Side Story è anche un’opera profondamente spielberghiana fatta di sangue e dolore, di ghettizzazione razziale come Il colore viola, alimentata anche da corse a perdifiato e da un senso dello spettacolo che abbraccia tutto il cinema dell’autore.
Dopo Lincoln prosegue la ri-nascita di una nazione che apre la strada a un possibile
neoclassicismo cinematografico americano.