Archivio film Cinema News — 08 Agosto 2019

Titolo originale: Trois Visages

Regia: Jafar Panahi

Soggetto e sceneggiatura: Jafar Panahi, Nader Saeivar

Montaggio: Mastaneh Mohajer, Panah Panahi

 

Fotografia: Amin Jafari

Musica: Kamil Shayan

Cast: Jafar Panahi, Benaz Jafari, Marziyeh Rezaei

Produzione: Jafar Panahi Film Productions

Anno: 2018
Durata: 100 minuti

Nazionalità: Iran

Il regista Jafar Panahi e l’attrice Benaz Jafari, che nel film interpretano sé stessi, intraprendono un viaggio nel cuore più rurale dell’Iran per risolvere un mistero. La donna infatti ha ricevuto sullo smartphone il video di una ragazza, che ostacolata dalla famiglia a frequentare l’accademia di recitazione, minaccia di suicidarsi. Il video si conclude proprio nel momento in cui la giovane mette il collo nel cappio. I due non sanno se si tratti di una bufala o di un video autentico, nel dubbio preferiscono andare alla ricerca della ragazza (o del suo corpo).

I tre volti del titolo si riferiscono alle tre generazioni differenti di donne/attrici. C’è quella di Jafari, un’attrice quarantenne di successo che appare nei film e nelle serie tv iraniane. La gente per strada la riconosce e la ferma per avere una foto o un autografo. C’è poi la giovane Marzihey, che ha inviato il video come disperata richiesta d’aiuto, perché confinata in una realtà claustrofobica ed opprimente. Infine è presente la storia di Maedeh Erteghaei, che famosa prima della rivoluzione, dopo il 1978 venne bandita dal mondo del cinema e del teatro e trattata come una paria, emarginata in una fatiscente casupola. Panahi ci tiene a precisare che questa è la fine che hanno fatto quasi tutti gli attori e le attrici attivi prima della rivoluzione.  

Il film è una sorta di docufiction, girato con un’estetica realista, o meglio neorealista che mette in pratica in modo esemplare il famoso pedinamento zavattiniano. Il regista con una tecnologia ai minimi termini (spesso si tratta di una mdp a mano) segue gli uomini del villaggio impegnati nelle loro attività quotidiane. Ma se lo sguardo di Panahi da un lato è quasi ammirato verso questa bucolica semplicità dall’altro non nasconde la sua indignazione verso una mentalità retrograda che mira a controllare e reprimere il genere femminile. Come già nei suoi precedenti film, Panahi ha un’attenzione particolare per le donne, colpite da un patriarcato a sfondo religioso, ma per questo unica speranza per un riscatto futuro.

Il regista infatti preferisce rimanere ai margini, lasciando che siano le donne ad agire. E per lui lo spazio femminile è talmente sacro e inaccessibile che non ci è dato nemmeno vedere cosa succede quando sono tra di loro. L’unica cosa che si può fare è accontentarsi di intravederle o sentire fuori campo le loro voci.

Ma la posizione marginale di Panahi nell’inquadratura ha anche una valenza simbolica, ricordiamo che dal 2009, da quando partecipò alle manifestazioni dell’Onda Verde, ha il divieto legale di girare film. Divieto al quale il regista ha contravvenuto realizzando tre film.

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