Archivio film Cinema News — 28 Settembre 2015

Titolo originale: Fehér isten
Regia: Kornél Mundruczó
Cast:Zsófia Psotta, Sandor Zsoter, Lili Horváth, Szabolcs Thuróczy, Lili Monori
Distribuzione: Bolero Film 
Durata:119 min.
Nazionalità: Ungheria
Anno: 2015

Kornél Mundruczó, esponente di punta del nuovo cinema ungherese grazie a lungometraggi come Johanna (2005), con White God-Sinfonia per Hagen ci regala un film scandito in due blocchi narrativi.

Da un lato abbiamo un focolare domestico travagliato dall’assenza materna, da un padre incattivito e reso dispotico dal dolore e da Lili, una bambina musicista ribelle e inquieta, attaccata morbosamente al suo cane Hagen.

L’animale nella progressione narrativa diventa poi il polo catalizzatore dell’intera diegesi tramite il suo abbandono e dall’altro compie un viaggio all’inferno fra  sequestri subiti da clochard, sevizie psicologiche e fisiche, combattimenti clandestini con i suoi simili, persecuzioni degli accalappiacani, fino a capeggiare una rivolta di randagi come  lui, che punirà tutti coloro che ne hanno violato la psiche e il corpo. Film bizzarro questo di Mundruczó: spaccato familiare, noir , fiaba nera ed eco vengeance, il filone degli animali assassini inaugurato da Hitchcock con l’immensurabile Gli uccelli. La novità è che come accadeva già in White Dog  (1981) di Samuel Fuller, tutto viene filtrato dallo sguardo dello stesso cane.

Le peripezie di Hagen sono stato esistenziale di inadeguatezza permanente, la prossemica di chi non ha nessun posto da occupare nel mondo. E il regista da a quel disagio forme aggraziate e smaccatamente simboliche: la musica diegetica  (repertorio di Liszt)  suonata dalla tromba di  Lili che risucchia la disperazione esistenziale in un sensazione di vuoto; il padre sordo al bisogno affettivo della figlia. Al cane come alla ragazza il mondo è conoscibile, esperibile anche nelle sue forme più cruente, è solo un set posticcio in cui si muove un male,  cui entrambi non appartengono ma capaci di attirarli a sè come una calamita, un’immersione  profonda, dolente nelle viscere di Budapest. che ci fa piombare nel buio della metropoli. Il gesto filmico del regista appare così preciso, potente, trovando una dimensione nel viaggio iniziatico di Hagen e  rigenerandolo verso l’oscurità,   che si rivela tanto più interessante quanto rischioso. Dapprima quando Hagen comincia  a vagabondare per  la città l’opera di Mundruczó, agisce sotterraneamente e ci trascina nella narrazione: seleziona nel caos i dettagli sensibili e ti rende impossibile un addio.Ma lo fa con una scrittura mai coercitiva, senza scene madri insistite (eccettuata quella dei cani che mettono a soqquadro Budapest), melassa disneyana, sottolineature enfatiche  o ruffianate varie.  Del resto non manca la critica sociologica: a Budapest impazza una legge, che per favorire l’allevamento dei cani di razza, prevede che sui bastardi venga applicata una forte tassa. Per questa ragione molti padroni stanno abbandonando gli animali nei canili. E il canile sarà l’epicentro scenografico spaziale, in cui Hagen organizzerà il suo “personale” esercito.

Hagen rimane un cane riflessivo:assorbe, percepisce  e codifica l’esistente.Non può farne a meno. Insomma, mentre la vita familiare dei suoi ex-padroni scorre in montaggio parallelo, Budapest è bella e terribile, i padroni vanno e vengono, Hagen muta la sua pacatezza in ribellione sovversiva, ma il senso delle cose rimane in quegli attimi in cui si matura, si gioca, si ferisce  e si ama: gli attimi che nascondono l’evoluzione della drammaturgia. Nel vuoto ottuso che attanaglia lo sguardo di Hagen, c’è il languore di una nazione intera, un calore sorprendente nella descrizione del microcosmo incolore e gelido della città bagnata dal Danubio. E mantenendo il suo registro in un equilibrio straniante fra realismo e grottesco, Mundruczó abbozza in maniera iperbolica il ritratto nero e vitale di un paese.

Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes nel 2014 fra consensi unanimi.

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